lunedì 17 settembre 2018

NOTTURNO ROSSO di Giovanna Daddi


Delia guarda il Buddha luminoso, un pezzo di plastica comprato su una bancarella di un mercatino di quartiere. Cambia colore a intermittenza, come uno Studio 54 dello Zen, un’insegna allettante che promette serenità, stanotte.
Fissa l’Oriente mistico a portata di comodino e spera che le trasmetta qualcosa. Attende, chiude gli occhi e li riapre, in un balletto di palpebre che si illude serva a distrarre la mente.
Sfiora il suo naso con la punta delle dita, a cercare quella minuscola irregolarità, vicino all’attaccatura, e continua fino alla punta, all’insù, ricorda suo fratello Raul, che fingeva fosse un trampolino per il suo dito. Le piace toccarsi la pelle, il viso, sentire che non sta svanendo.
Non accade nulla, forse il Buddha non è quello giusto, forse dovrebbe meditare, o concentrarsi sul respiro. Ma il disagio non le dà tutto questo tempo, incalza e preme sulle tempie, accelera il battito, secca le labbra. La mano si tende a prendere quella minuscola pasticca bianca, gliel’ha prescritta il dottore, forse funzionerà.
La ingoia con un po’ d’acqua, ha un sapore amaro ma passa subito. Nell’immediato non accade nulla.
Continua a fissare il Buddha. Pensa che oramai è ridotto a un’icona pop, come Kennedy, Gesù e Che Guevara, assimilati, masticati e risputati come assemblaggi di linee, pixel, punti di colore, tratti di matita privi di senso e di valore.
La chiamano cultura di massa, è il pop, è la vita veloce che consuma, mangia e non pensa, non si ferma, non capisce. Perché la fretta è nemica della riflessione, perché non vogliamo capire, preferiamo fuggire dalle profondità e dalla complicazione di riflettere.
O forse i simboli sono troppo pesanti per poterli sopportare e così li rendiamo più leggeri. 
Un modellino in plastica della Cupola del Duomo, una Tour Eiffel da attaccare al frigo, con la calamita, un cammello, animale nobile del deserto, su un pacchetto di sigarette, un poster dei Girasoli di Van Gogh. Al pari delle figurine Panini. In un calderone di ricordi individuali che diventano ricordi collettivi e si incagliano in un continuo gap generazionale per cui i nostri padri non capiscono e noi non capiamo loro. E chissà che direbbe sua madre, chissà che penserebbe di lei e di questo mondo ora, se la vedesse adesso, in questa penombra con una pasticca nello stomaco a fissare un derivato del petrolio cercando di trarne un qualche giovamento. Delia, che finge di ignorare di avere una storia di famiglia, un servito buono a prendere polvere in una madia troppo grande, tovaglie di san gallo per cene che non ci saranno, l’abito di tulle della prima comunione che sta lì nell’armadio e un giorno strapperà la gonna e la userà come rete per pesci immaginari, o ci addobberà una lampada al neon. Oppure lo regalerà a chi ha bambole o figlie, a chi ancora crede nei ricordi che dovrebbero farci sentire vivi e invece ci tirano giù, ci affossano in un abisso di cose non dette e non fatte per tempo.
Come quella volta che lei moriva e Delia non ha saputo dire addio, è rimasta lì ferma, come sempre, ad aspettare un qualche miracolo o solo un attimo di tregua armata dalle sue meningi sopraffatte.

Ma basta pensare a lei, direbbe e farebbe quel che le pare, non importa, in fondo, non è mai stato così importante, è solo una costruzione, un alibi per restare immobile ancora e ancora e ancora.

Forse dovrebbe dormire. Esplora la linea della sua mandibola. Sale fino allo zigomo, cerca senza fretta il neo bianco invisibile all’occhio ma sensibile al tatto.
Il letto le fa quasi paura e allo stesso tempo lo vuole, vuole che la inghiotta e non la restituisca al giorno, osserva da vicino i ricami sulle lenzuola di lino bianco, ferma, uno spasmo, poi silenzio, dimenticarsi di sé, aspettare l’alba e ignorarla, da dietro le persiane socchiuse, con finta noncuranza, come se non si stupisse ogni volta, come se non fosse ogni volta come vederla la prima volta, come rendersi conto che esiste il sole in quel preciso momento e ringraziare ancora una volta di essere viva. In questa noia, in questa interminabile coda di sensazioni e lampi, come schegge di pensieri, da annegare nel primo caffè della mattina, nel profumo consolatorio della brioche appena sfornata, un’aria di burro che attutisce la caduta sulla terra dura e nera della contorsione del suo essere in mezzo a tanti altri esseri. Nella realtà che non vorrebbe, che è movimento doloroso ma essenziale.

La sveglia ha sempre la grazia di uno sparo, inaspettata alla coscienza, profonda come una coltellata alla schiena data da un amico.
Nei suoi pochi minuti di sonno, Delia ha sognato formiche. Sognare formiche è un ottimo presagio, così dice il Libro dei Sogni. Ma se le formiche invadono la tua casa, nel sogno, allora il presagio non è buono: ci saranno liti e discordie in famiglia.
La differenza è molto sottile, potresti non ricordare bene se le formiche invadevano la casa oppure una sola stanza, se erano ovunque o concentrate in un punto. Se, ad esempio, le formiche erano sul pavimento della cucina, lo ricoprivano come una moquette nera, qual è il significato? Non c'è un'interpretazione precisa, le interpretazioni non sono mai precise, volutamente: devono adattarsi a qualunque situazione, a qualunque domanda, a qualunque segreto desiderio.
Quindi sono sciocchezze.
La verità non sta nel libro dei sogni, è bene saperlo. La verità non sta nei sogni, anzi. La verità si conquista gradualmente sbattendo la testa negli errori quotidiani, sopportando i fallimenti, imparando a conoscere il prossimo attraverso le sue azioni.

Delia se ne deve convincere. La mattina, seduta al tavolo di cucina a sorbire il caffè, pensa a questo, pur di non pensare alla giornata che la aspetta. Sono anni che si illude, aspettando immobile un qualche deus ex machina che arrivi a risolvere la sua esistenza, infantilmente fiduciosa in un colpo di fortuna, in un'illuminazione improvvisa. Come nei film dove il protagonista rassegnato e stanco incontra un babbo natale, vince alla lotteria, s’imbatte nell’anima gemella.
Intanto, per quel giorno, decide di compiere un dirompente gesto di ribellione: il pranzo da portarsi a lavoro non lo avrebbe preparato. Sarebbe andata senza la gavetta, sarebbe stata alla sorte. Nella ripetizione coatta dei gesti quotidiani, anche quelle minime e innocue sterzate riescono a darle l’illusione di poter cambiare qualcosa.
Il gatto nero la guarda da lontano con sospetto, aspetta il suo cibo, gli occhi gialli vigili e impenetrabili. Delia ha ancora troppo sonno, Il solito sonno che raramente la abbandona, come una patina permanente sugli occhi. Passa in rassegna i dolori ai muscoli, regalo della posizione innaturale in cui si è addormentata, dolori che a volte sono così forti da bloccarle il pensiero. Ma poi vanno via, nel giro di pochi minuti, sufficienti comunque a rovinarle l'inizio della giornata, ma non abbastanza gravi da permetterle un'assenza per malattia.
Gli occhi sono quelli di ogni mattina: gonfi, e sa che ci vorranno ore perché le borse e le occhiaie si attenuino. La tumefazione viene da dentro, forse da qualche organo che non funziona a dovere, o forse direttamente dalla noia che ha incastonata nelle fibre dei muscoli, nei neuroni, nei tendini, nelle cartilagini, persino nei capelli, spenti e sfibrati.
Eppure Delia è bella. Solo che la sua bellezza comincia a fare capolino verso mezzogiorno, e raggiunge il suo apice all'ora di andare a letto, attraversando una fase di calo significativo proprio nell'orario in cui tenta di procurarsi dello svago uscendo con gli amici.
Dà da mangiare a Enzo, il gatto nero, e poi fa colazione, senza sentire il sapore del cibo, beve un caffè forte e accende la prima sigaretta della giornata. Il gatto schizza via infastidito, e torna sul divano, dove passerà il resto della giornata.

Prima di uscire di casa Delia apre il cassetto segreto, la chiave la porta al collo, appesa a una catenina d'oro molto sottile.
Il mobiletto rosso lacca cinese, ereditato dai suoi, che le era sempre piaciuto e che teneva in camera, aveva un cassetto. Fin da bambina ci metteva dentro cose preziose: una foglia di autunno, una biglia di vetro colorata, un bigliettino, un piccolo portachiavi a forma di koala, di stoffa pelosa. Ancora oggi, a 30 anni, deve guardare ogni giorno il contenuto del cassetto: la collana di sua madre, le fedi dei suoi genitori, la medaglia vinta da Raul in una gara di nuoto di tanti anni prima, una fotografia in bianco e nero dell'unica parente che le è rimasta, Ombretta, la sua prozia, cacciata dal paese in cui era nata. La chiamavano la Strega, Delia non aveva mai saputo il perché. Deve andare più spesso a trovare Ombretta alla casa di riposo dove sta ormai da anni, cieca e malata, senza più capelli. Pare che la notte deliri, le urla non fanno dormire gli altri. Delia non può più ignorare le telefonate del direttore della casa di cura.

Raggiunge la fermata dell'autobus per andare a lavoro, i secondi che la porta automatica impiega per aprirsi sembrano interminabili, nel freddo delle sette. Si precipita dentro, guadagna un posto a sedere, senza guardarsi intorno e cercando di respirare meno profondamente possibile: i miasmi dei mezzi sono una punizione a cui non si sarebbe mai abituata. Per non parlare dei germi e di tutto quel pulviscolo umano che chissà cosa porta con sé. Si ripara la bocca e il naso con la sciarpa verde smeraldo, premendo la morbida lana contro la pelle e inspirandone il profumo, quello che impregna tutti i suoi abiti e che proviene dal legno di ciliegio dell’armadio.
L'autobus parte, Delia ha poco meno di mezz'ora di vita prima di timbrare il cartellino, e la usa, come sempre, per immaginarsi diversa in una vita diversa.
Arriva a destinazione, scende, guarda il palazzo che ospita il suo ufficio. Solo un'altra sigaretta e poi dovrà entrare in un'apnea impiegatizia lunga 8 ore.

Sa che l’unica sorpresa della giornata sarà la ragazza che vedrà accanto a suo fratello nella telefonata serale via Skype. Raul vive all’altro capo del mondo da molti anni. A un certo punto se ne era andato e non era stato neanche più un amico, lo sente solo così, una volta a settimana, e lui, ogni volta, le presenta una fidanzata diversa.
Delia ormai sa, al primo sguardo, che nessuna di quelle ragazze supererà i sette giorni. Raul soffre di un qualche misterioso disturbo che lo porta a non far durare niente nella sua agitatissima vita. Perché era scappato? Perché si annoiava. Tutto qui. Come lei, esattamente come lei. Solo che lui non resta fermo, non era mai stato fermo, neppure da piccolo, e si dimena nella vita come un vortice in scala ridotta, sempre in movimento, sempre da una casa all’altra, da un lavoro all’altro. Quell’unica telefonata a settimana è una straordinaria conquista di stabilità, una parvenza di normalità, un accenno di contatto, una speranza di esistenza: da qualche parte, chissà dove, ci sei, e sei mio fratello. Che ti piaccia o no.

La sera arriva di nuovo, la telefonata è finita, lasciando più vuoto e domande che risposte.
Delia si avvia in camera, il gatto la segue, il Buddha è acceso. Lo guarda sperando che la luce rossa duri più delle altre. Ma non succede, si susseguono allo stesso ritmo il blu, il verde, il giallo, il viola, il rosso. “Domani è sabato. Andrò dalla vecchia”.
Delia arriva alla clinica con una indefinita sensazione, non sa se di tragedia imminente o di curiosità da luna park: la stessa sensazione di eccitazione mista a paura e tristezza dei bambini quando vanno al circo.
Il timore che Ombretta muoia all’improvviso non l’abbandona mai. In fondo non è un vero e proprio timore, non sa se prova un autentico affetto per la vecchia, o se solo si attacca a lei, al suo resistere, come all’unico filo che la tiene legata a una famiglia che non ha più.
La vecchia la smentisce puntualmente comunque, è viva, ancora un giorno almeno.
Già nella hall si sentono le urla di Ombretta, che si rifiuta di capire che non ha la libertà di andare e venire, di uscire di là. Ciò che più la indispettisce, pensa Delia, è che non può più nuocere agli altri, non può più lanciare sguardi di fuoco dagli occhi verdi, scacciare mocciosi, inseguire lepri, spiare tresche di paesani, raccogliere erbe per farne intrugli immondi. Non può più correre con la chioma rossa al vento in mezzo al bosco, né far voltare uomini accompagnati ridendo poi della bruttezza delle loro mogli. 
Questo pensa Delia, anche se non conosce davvero il passato della vecchia, ma immagina che sia così e la sua immaginazione acquista il passaporto di realtà.

Il Direttore della clinica appare, disperato, con la sua aria da burocrate affranto, ad accogliere Delia, le racconta che Ombretta urla anche nel cuore della notte, spesso si alza, va a svegliare gli altri anziani degenti e li guida, come una leader naturale, ma invasata, istigandoli a rubare cibo, a fumare sigarette, chissà dove le trova poi, a mettere a soqquadro tutto quanto. Uno lo avevano ritrovato su un albero, mezzo nudo, con lo sguardo estasiato ma tramortito dal freddo.

Insomma la situazione è grave, Ombretta non collabora, Delia deve cercare di far ragionare la prozia. Quella è l’unica clinica che può permettersi, deve impedire che la vecchia si faccia cacciare.
Annuisce contrita al Direttore, si incammina, con passo incerto, esitante se scappare e non tornare più, verso la camera di Ombretta.

Vede che le infermiere la stanno contenendo e la dottoressa, una smilza repressa biondiccia e slavata, ordina la sedazione. Delia prova rabbia in quel momento, vorrebbe liberare la zia da quelle guardiane e portarla via. Ma dove? Non può, lo sa.
Dopo la sedazione Ombretta viene riportata in stanza, Delia segue, chiude la porta alle sue spalle, congeda il personale e si siede accanto al letto, guardando la zia.
“Dimmi cosa vuoi, dimmi che succede”
“Delia ho sognato di nuovo, anzi no! Non era un sogno, questo è quello che credono loro. Io le ho viste! Stavano lì fuori, come ogni notte, mi chiamavano, e io non posso uscire! Ma io devo andare con loro Delia, devo!”

Ancora. La cosa è più grave del previsto. Quella vecchia pazza è convinta di essere una strega, e ogni notte di luna piena crede di dover andare al sabba: ci sono un sacco di streghe fuori dalla finestra che la chiamano e lei deve andare a festeggiare con loro, mangiando galline vive o chissà che altro, propiziando raccolti.
Ombretta aveva quella fissazione da sempre: l'avevano cacciata dal suo paese perché passava le notti correndo e urlando per le vie, come un'invasata, entrando nei campi dei vicini, a fare strage di polli e conigli, lanciava incantesimi (o meglio, così credeva lei) per far cadere denti e capelli a chi le stava antipatico, la corte di casa sua era disseminata di gatti randagi e quando qualcuno si avvicinava gli tirava addosso una scarica di fucile di Amos.
Amos era stato suo marito, lo aveva molto amato, a sentir lei, poi un brutto giorno morì. Le circostanze della morte erano state assai misteriose: lo avevano trovato nella stalla con un coltello moresco conficcato nel cranio. Un bel coltello, di pregio. Senza impronte.
Tutto il paese era convinto che fosse stata Ombretta, in un raptus di follia, ma non c'era stato modo di provarlo e lei, dal canto suo, appariva realmente distrutta dal dolore. All'epoca era ancora bellissima: aveva capelli rosso Tiziano morbidi come la seta, la pelle bianchissima, gli occhi grandi, verdi. Era alta e sottile, elegante come una regina. Il sindaco era innamorato di lei, da sempre, e lei ne approfittò per farsi aiutare a provare la sua innocenza, contemporaneamente riuscendo (così sosteneva) a far venire un attacco alla moglie del sindaco e a farsi lasciare in pace.
Ma per poco, quando fu evidente a tutti che era pazza e pericolosa, la cacciarono, chiamarono i parenti che aveva altrove e la fecero interdire. Insomma, passò in manicomio un bel po' di tempo. Poi, con la chiusura di quelle strutture, era uscita, più pazza di prima, e affidata alle cure della famiglia rimasta in vita.
Delia era l'ultima, e se l'era dovuta accollare.

All'inizio non era male, doveva solo andare a trovarla, e ascoltare le sue storie strampalate, che spesso erano belle, erano le fiabe paurose che si raccontano da bambini. Ma poi le condizioni mentali si erano aggravate, ed erano arrivate a quel punto. Delia soffriva di non potersi permettere di più: forse in una struttura migliore di quella l'avrebbero potuta curare. Ma Delia non aveva soldi. Ombretta aveva solo visioni. Non aveva lavorato neppure un giorno in vita sua, non aveva una pensione, non aveva niente.

Sta lì, seduta vicina al letto, accanto alla zia, il tempo che si addormenti. La guarda un attimo più lungo del solito, notando, stranamente, che una ciocca dei suoi capelli, bianchi ormai da anni, è rossa. Quella vecchia strega si è tinta. Chissà a chi ha fregato il colore, forse a un'infermiera. Ha ancora di questi vezzi. Delia prova all’improvviso un moto di tenerezza per la zia pazza, e nota anche che il colore è molto bello, deve scoprire che marca ha usato.

Gingillandosi con questi innocui pensieri, si accorge che è quasi buio, inverno freddo, giornate corte. Guarda fuori dalla finestra, non un gran panorama ad essere onesti. I suoi occhi, verdi come quelli di Ombretta, vedono bene nel buio. Pensando già al giorno dopo, vede ombre davanti alla finestra, i rami degli alberi? Chissà, non dà importanza, esce dalla stanza, guardando un’ultima volta la donna magra sul letto. Passa davanti alla reception, evitando di guardare negli occhi il portiere (Ombretta lo aveva morso più volte), saluta con un sussurro.

Torna nella sua casa. Il gatto la accoglie con il solito sospetto, si smarca dalle carezze di Delia e si dirige verso la camera, sulla poltrona di pelle che ha ormai fatto sua. Delia compie i gesti abituali, come in trance, pensando a Ombretta, qualcosa si fissa nella sua memoria, come un fermo immagine. Non riesce a distinguere l’illusione dei suoi strani sogni dalla realtà sensibile, mangia dal frigorifero, non può compiere alcuno sforzo, neppure accendere un fornello. Si spoglia lentamente, getta gli abiti lontano, si infila nella vasca. Il verde degli occhi riflette la schiuma, che si fa onda, la candela accesa emana un profumo di ambra. Delia non prova ansia stasera. Sente che qualcosa sta per accadere, sente che qualcuno la chiamerà per dirle che Ombretta è morta. Questa volta ne è sicura.

Spenge il Buddha luminoso, dimentica la pasticca bianca, si addormenta subito e sogna di donne androgine e belle, di capelli rossi e neri, sospesi nell’aria della notte, sogna labbra dischiuse che chiamano a raccolta un esercito di creature, in un sussurro quasi inudibile ma irresistibile. Si sveglia di soprassalto, lo squillo del telefono, il Direttore “Sua zia non c’è più”. Non morta, proprio sparita.

Una mattina di sopralluoghi, poliziotti, infermieri, tutti a cercare in lungo e in largo la vecchia Ombretta.
Ombretta non c’è. Delia entra nella sua stanza, c’è una collana di ametiste, ci sono capelli bianchi e rossi sul cuscino, la finestra è aperta, entra freddo.
Ombretta non si trova. Delia sa che non è scappata a piedi. Delia ha fatto un sogno di ombre, quel sogno è realtà.

Per la prima volta Delia dorme senza sogni, profondamente, il gatto accoccolato sul letto, si sveglia riposata. I suoi occhi verdi sono distesi e luminosi.
Davanti allo specchio vede una ciocca rosso Tiziano tra i suoi capelli. Adesso sa che il sogno è realtà e la realtà è sogno.
Raul sta per tornare.


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