Delia guarda il Buddha luminoso, un pezzo di
plastica comprato su una bancarella di un mercatino di quartiere. Cambia colore
a intermittenza, come uno Studio 54 dello Zen, un’insegna allettante che
promette serenità, stanotte.
Fissa l’Oriente mistico a portata di comodino
e spera che le trasmetta qualcosa. Attende, chiude gli occhi e li riapre, in un
balletto di palpebre che si illude serva a distrarre la mente.
Sfiora il suo naso con la punta delle dita, a
cercare quella minuscola irregolarità, vicino all’attaccatura, e continua fino
alla punta, all’insù, ricorda suo fratello Raul, che fingeva fosse un
trampolino per il suo dito. Le piace toccarsi la pelle, il viso, sentire che
non sta svanendo.
Non accade nulla, forse il Buddha non è
quello giusto, forse dovrebbe meditare, o concentrarsi sul respiro. Ma il
disagio non le dà tutto questo tempo, incalza e preme sulle tempie, accelera il
battito, secca le labbra. La mano si tende a prendere quella minuscola pasticca
bianca, gliel’ha prescritta il dottore, forse funzionerà.
La ingoia con un po’ d’acqua, ha un sapore
amaro ma passa subito. Nell’immediato non accade nulla.
Continua a fissare il Buddha. Pensa che
oramai è ridotto a un’icona pop, come Kennedy, Gesù e Che Guevara, assimilati,
masticati e risputati come assemblaggi di linee, pixel, punti di colore, tratti
di matita privi di senso e di valore.
La chiamano cultura di massa, è il pop, è la
vita veloce che consuma, mangia e non pensa, non si ferma, non capisce. Perché
la fretta è nemica della riflessione, perché non vogliamo capire, preferiamo
fuggire dalle profondità e dalla complicazione di riflettere.
O forse i simboli sono troppo pesanti per
poterli sopportare e così li rendiamo più leggeri.
Un modellino in plastica della Cupola del
Duomo, una Tour Eiffel da attaccare al frigo, con la calamita, un cammello,
animale nobile del deserto, su un pacchetto di sigarette, un poster dei
Girasoli di Van Gogh. Al pari delle figurine Panini. In un calderone di ricordi
individuali che diventano ricordi collettivi e si incagliano in un continuo gap
generazionale per cui i nostri padri non capiscono e noi non capiamo loro. E chissà
che direbbe sua madre, chissà che penserebbe di lei e di questo mondo ora, se
la vedesse adesso, in questa penombra con una pasticca nello stomaco a fissare
un derivato del petrolio cercando di trarne un qualche giovamento. Delia, che
finge di ignorare di avere una storia di famiglia, un servito buono a prendere
polvere in una madia troppo grande, tovaglie di san gallo per cene che non ci
saranno, l’abito di tulle della prima comunione che sta lì nell’armadio e un
giorno strapperà la gonna e la userà come rete per pesci immaginari, o ci
addobberà una lampada al neon. Oppure lo regalerà a chi ha bambole o figlie, a
chi ancora crede nei ricordi che dovrebbero farci sentire vivi e invece ci
tirano giù, ci affossano in un abisso di cose non dette e non fatte per tempo.
Come quella volta che lei moriva e Delia non
ha saputo dire addio, è rimasta lì ferma, come sempre, ad aspettare un qualche
miracolo o solo un attimo di tregua armata dalle sue meningi sopraffatte.
Ma basta pensare a lei, direbbe e farebbe quel
che le pare, non importa, in fondo, non è mai stato così importante, è solo una
costruzione, un alibi per restare immobile ancora e ancora e ancora.
Forse dovrebbe dormire. Esplora la linea
della sua mandibola. Sale fino allo zigomo, cerca senza fretta il neo bianco
invisibile all’occhio ma sensibile al tatto.
Il letto le fa quasi paura e allo stesso
tempo lo vuole, vuole che la inghiotta e non la restituisca al giorno, osserva
da vicino i ricami sulle lenzuola di lino bianco, ferma, uno spasmo, poi
silenzio, dimenticarsi di sé, aspettare l’alba e ignorarla, da dietro le
persiane socchiuse, con finta noncuranza, come se non si stupisse ogni volta,
come se non fosse ogni volta come vederla la prima volta, come rendersi conto
che esiste il sole in quel preciso momento e ringraziare ancora una volta di
essere viva. In questa noia, in questa interminabile coda di sensazioni e
lampi, come schegge di pensieri, da annegare nel primo caffè della mattina, nel
profumo consolatorio della brioche appena sfornata, un’aria di burro che
attutisce la caduta sulla terra dura e nera della contorsione del suo essere in
mezzo a tanti altri esseri. Nella realtà che non vorrebbe, che è movimento
doloroso ma essenziale.
La
sveglia ha sempre la grazia di uno sparo, inaspettata alla coscienza, profonda
come una coltellata alla schiena data da un amico.
Nei
suoi pochi minuti di sonno, Delia ha sognato formiche. Sognare formiche è un
ottimo presagio, così dice il Libro dei Sogni. Ma se le formiche invadono la
tua casa, nel sogno, allora il presagio non è buono: ci saranno liti e
discordie in famiglia.
La
differenza è molto sottile, potresti non ricordare bene se le formiche
invadevano la casa oppure una sola stanza, se erano ovunque o concentrate in un
punto. Se, ad esempio, le formiche erano sul pavimento della cucina, lo
ricoprivano come una moquette nera, qual è il significato? Non c'è
un'interpretazione precisa, le interpretazioni non sono mai precise,
volutamente: devono adattarsi a qualunque situazione, a qualunque domanda, a
qualunque segreto desiderio.
Quindi
sono sciocchezze.
La
verità non sta nel libro dei sogni, è bene saperlo. La verità non sta nei
sogni, anzi. La verità si conquista gradualmente sbattendo la testa negli
errori quotidiani, sopportando i fallimenti, imparando a conoscere il prossimo
attraverso le sue azioni.
Delia
se ne deve convincere. La mattina, seduta al tavolo di cucina a sorbire il
caffè, pensa a questo, pur di non pensare alla giornata che la aspetta. Sono
anni che si illude, aspettando immobile un qualche deus ex machina che arrivi a
risolvere la sua esistenza, infantilmente fiduciosa in un colpo di fortuna, in
un'illuminazione improvvisa. Come nei film dove il protagonista rassegnato e
stanco incontra un babbo natale, vince alla lotteria, s’imbatte nell’anima
gemella.
Intanto,
per quel giorno, decide di compiere un dirompente gesto di ribellione: il
pranzo da portarsi a lavoro non lo avrebbe preparato. Sarebbe andata senza la
gavetta, sarebbe stata alla sorte. Nella ripetizione coatta dei gesti quotidiani,
anche quelle minime e innocue sterzate riescono a darle l’illusione di poter
cambiare qualcosa.
Il
gatto nero la guarda da lontano con sospetto, aspetta il suo cibo, gli occhi
gialli vigili e impenetrabili. Delia ha ancora troppo sonno, Il solito sonno
che raramente la abbandona, come una patina permanente sugli occhi. Passa in
rassegna i dolori ai muscoli, regalo della posizione innaturale in cui si è
addormentata, dolori che a volte sono così forti da bloccarle il pensiero. Ma
poi vanno via, nel giro di pochi minuti, sufficienti comunque a rovinarle
l'inizio della giornata, ma non abbastanza gravi da permetterle un'assenza per
malattia.
Gli
occhi sono quelli di ogni mattina: gonfi, e sa che ci vorranno ore perché le
borse e le occhiaie si attenuino. La tumefazione viene da dentro, forse da
qualche organo che non funziona a dovere, o forse direttamente dalla noia che
ha incastonata nelle fibre dei muscoli, nei neuroni, nei tendini, nelle
cartilagini, persino nei capelli, spenti e sfibrati.
Eppure
Delia è bella. Solo che la sua bellezza comincia a fare capolino verso
mezzogiorno, e raggiunge il suo apice all'ora di andare a letto, attraversando
una fase di calo significativo proprio nell'orario in cui tenta di procurarsi
dello svago uscendo con gli amici.
Dà
da mangiare a Enzo, il gatto nero, e poi fa colazione, senza sentire il sapore
del cibo, beve un caffè forte e accende la prima sigaretta della giornata. Il
gatto schizza via infastidito, e torna sul divano, dove passerà il resto della
giornata.
Prima
di uscire di casa Delia apre il cassetto segreto, la chiave la porta al collo,
appesa a una catenina d'oro molto sottile.
Il
mobiletto rosso lacca cinese, ereditato dai suoi, che le era sempre piaciuto e
che teneva in camera, aveva un cassetto. Fin da bambina ci metteva dentro cose
preziose: una foglia di autunno, una biglia di vetro colorata, un bigliettino,
un piccolo portachiavi a forma di koala, di stoffa pelosa. Ancora oggi, a 30
anni, deve guardare ogni giorno il contenuto del cassetto: la collana di sua
madre, le fedi dei suoi genitori, la medaglia vinta da Raul in una gara di
nuoto di tanti anni prima, una fotografia in bianco e nero dell'unica parente
che le è rimasta, Ombretta, la sua prozia, cacciata dal paese in cui era nata.
La chiamavano la Strega, Delia non aveva mai saputo il perché. Deve andare più
spesso a trovare Ombretta alla casa di riposo dove sta ormai da anni, cieca e
malata, senza più capelli. Pare che la notte deliri, le urla non fanno dormire
gli altri. Delia non può più ignorare le telefonate del direttore della casa di
cura.
Raggiunge
la fermata dell'autobus per andare a lavoro, i secondi che la porta automatica
impiega per aprirsi sembrano interminabili, nel freddo delle sette. Si
precipita dentro, guadagna un posto a sedere, senza guardarsi intorno e
cercando di respirare meno profondamente possibile: i miasmi dei mezzi sono una
punizione a cui non si sarebbe mai abituata. Per non parlare dei germi e di
tutto quel pulviscolo umano che chissà cosa porta con sé. Si ripara la bocca e
il naso con la sciarpa verde smeraldo, premendo la morbida lana contro la pelle
e inspirandone il profumo, quello che impregna tutti i suoi abiti e che
proviene dal legno di ciliegio dell’armadio.
L'autobus
parte, Delia ha poco meno di mezz'ora di vita prima di timbrare il cartellino,
e la usa, come sempre, per immaginarsi diversa in una vita diversa.
Arriva
a destinazione, scende, guarda il palazzo che ospita il suo ufficio. Solo
un'altra sigaretta e poi dovrà entrare in un'apnea impiegatizia lunga 8 ore.
Sa
che l’unica sorpresa della giornata sarà la ragazza che vedrà accanto a suo
fratello nella telefonata serale via Skype. Raul vive all’altro capo del mondo
da molti anni. A un certo punto se ne era andato e non era stato neanche più un
amico, lo sente solo così, una volta a settimana, e lui, ogni volta, le
presenta una fidanzata diversa.
Delia
ormai sa, al primo sguardo, che nessuna di quelle ragazze supererà i sette
giorni. Raul soffre di un qualche misterioso disturbo che lo porta a non far
durare niente nella sua agitatissima vita. Perché era scappato? Perché si
annoiava. Tutto qui. Come lei, esattamente come lei. Solo che lui non resta
fermo, non era mai stato fermo, neppure da piccolo, e si dimena nella vita come
un vortice in scala ridotta, sempre in movimento, sempre da una casa all’altra,
da un lavoro all’altro. Quell’unica telefonata a settimana è una straordinaria
conquista di stabilità, una parvenza di normalità, un accenno di contatto, una
speranza di esistenza: da qualche parte, chissà dove, ci sei, e sei mio
fratello. Che ti piaccia o no.
La
sera arriva di nuovo, la telefonata è finita, lasciando più vuoto e domande che
risposte.
Delia
si avvia in camera, il gatto la segue, il Buddha è acceso. Lo guarda sperando
che la luce rossa duri più delle altre. Ma non succede, si susseguono allo
stesso ritmo il blu, il verde, il giallo, il viola, il rosso. “Domani è sabato.
Andrò dalla vecchia”.
Delia
arriva alla clinica con una indefinita sensazione, non sa se di tragedia
imminente o di curiosità da luna park: la stessa sensazione di eccitazione
mista a paura e tristezza dei bambini quando vanno al circo.
Il
timore che Ombretta muoia all’improvviso non l’abbandona mai. In fondo non è un
vero e proprio timore, non sa se prova un autentico affetto per la vecchia, o
se solo si attacca a lei, al suo resistere, come all’unico filo che la tiene
legata a una famiglia che non ha più.
La
vecchia la smentisce puntualmente comunque, è viva, ancora un giorno almeno.
Già
nella hall si sentono le urla di Ombretta, che si rifiuta di capire che non ha
la libertà di andare e venire, di uscire di là. Ciò che più la indispettisce,
pensa Delia, è che non può più nuocere agli altri, non può più lanciare sguardi
di fuoco dagli occhi verdi, scacciare mocciosi, inseguire lepri, spiare tresche
di paesani, raccogliere erbe per farne intrugli immondi. Non può più correre
con la chioma rossa al vento in mezzo al bosco, né far voltare uomini
accompagnati ridendo poi della bruttezza delle loro mogli.
Questo
pensa Delia, anche se non conosce davvero il passato della vecchia, ma immagina
che sia così e la sua immaginazione acquista il passaporto di realtà.
Il
Direttore della clinica appare, disperato, con la sua aria da burocrate
affranto, ad accogliere Delia, le racconta che Ombretta urla anche nel cuore
della notte, spesso si alza, va a svegliare gli altri anziani degenti e li
guida, come una leader naturale, ma invasata, istigandoli a rubare cibo, a
fumare sigarette, chissà dove le trova poi, a mettere a soqquadro tutto quanto.
Uno lo avevano ritrovato su un albero, mezzo nudo, con lo sguardo estasiato ma
tramortito dal freddo.
Insomma
la situazione è grave, Ombretta non collabora, Delia deve cercare di far
ragionare la prozia. Quella è l’unica clinica che può permettersi, deve
impedire che la vecchia si faccia cacciare.
Annuisce
contrita al Direttore, si incammina, con passo incerto, esitante se scappare e
non tornare più, verso la camera di Ombretta.
Vede
che le infermiere la stanno contenendo e la dottoressa, una smilza repressa
biondiccia e slavata, ordina la sedazione. Delia prova rabbia in quel momento,
vorrebbe liberare la zia da quelle guardiane e portarla via. Ma dove? Non può,
lo sa.
Dopo
la sedazione Ombretta viene riportata in stanza, Delia segue, chiude la porta
alle sue spalle, congeda il personale e si siede accanto al letto, guardando la
zia.
“Dimmi
cosa vuoi, dimmi che succede”
“Delia
ho sognato di nuovo, anzi no! Non era un sogno, questo è quello che credono
loro. Io le ho viste! Stavano lì fuori, come ogni notte, mi chiamavano, e io
non posso uscire! Ma io devo andare con loro Delia, devo!”
Ancora.
La cosa è più grave del previsto. Quella vecchia pazza è convinta di essere una
strega, e ogni notte di luna piena crede di dover andare al sabba: ci sono un
sacco di streghe fuori dalla finestra che la chiamano e lei deve andare a
festeggiare con loro, mangiando galline vive o chissà che altro, propiziando raccolti.
Ombretta
aveva quella fissazione da sempre: l'avevano cacciata dal suo paese perché
passava le notti correndo e urlando per le vie, come un'invasata, entrando nei
campi dei vicini, a fare strage di polli e conigli, lanciava incantesimi (o
meglio, così credeva lei) per far cadere denti e capelli a chi le stava
antipatico, la corte di casa sua era disseminata di gatti randagi e quando
qualcuno si avvicinava gli tirava addosso una scarica di fucile di Amos.
Amos
era stato suo marito, lo aveva molto amato, a sentir lei, poi un brutto giorno
morì. Le circostanze della morte erano state assai misteriose: lo avevano
trovato nella stalla con un coltello moresco conficcato nel cranio. Un bel
coltello, di pregio. Senza impronte.
Tutto
il paese era convinto che fosse stata Ombretta, in un raptus di follia, ma non
c'era stato modo di provarlo e lei, dal canto suo, appariva realmente distrutta
dal dolore. All'epoca era ancora bellissima: aveva capelli rosso Tiziano
morbidi come la seta, la pelle bianchissima, gli occhi grandi, verdi. Era alta
e sottile, elegante come una regina. Il sindaco era innamorato di lei, da
sempre, e lei ne approfittò per farsi aiutare a provare la sua innocenza,
contemporaneamente riuscendo (così sosteneva) a far venire un attacco alla moglie
del sindaco e a farsi lasciare in pace.
Ma
per poco, quando fu evidente a tutti che era pazza e pericolosa, la cacciarono,
chiamarono i parenti che aveva altrove e la fecero interdire. Insomma, passò in
manicomio un bel po' di tempo. Poi, con la chiusura di quelle strutture, era
uscita, più pazza di prima, e affidata alle cure della famiglia rimasta in
vita.
Delia
era l'ultima, e se l'era dovuta accollare.
All'inizio
non era male, doveva solo andare a trovarla, e ascoltare le sue storie
strampalate, che spesso erano belle, erano le fiabe paurose che si raccontano
da bambini. Ma poi le condizioni mentali si erano aggravate, ed erano arrivate
a quel punto. Delia soffriva di non potersi permettere di più: forse in una
struttura migliore di quella l'avrebbero potuta curare. Ma Delia non aveva
soldi. Ombretta aveva solo visioni. Non aveva lavorato neppure un giorno in
vita sua, non aveva una pensione, non aveva niente.
Sta
lì, seduta vicina al letto, accanto alla zia, il tempo che si addormenti. La
guarda un attimo più lungo del solito, notando, stranamente, che una ciocca dei
suoi capelli, bianchi ormai da anni, è rossa. Quella vecchia strega si è tinta.
Chissà a chi ha fregato il colore, forse a un'infermiera. Ha ancora di questi
vezzi. Delia prova all’improvviso un moto di tenerezza per la zia pazza, e nota
anche che il colore è molto bello, deve scoprire che marca ha usato.
Gingillandosi
con questi innocui pensieri, si accorge che è quasi buio, inverno freddo,
giornate corte. Guarda fuori dalla finestra, non un gran panorama ad essere
onesti. I suoi occhi, verdi come quelli di Ombretta, vedono bene nel buio.
Pensando già al giorno dopo, vede ombre davanti alla finestra, i rami degli
alberi? Chissà, non dà importanza, esce dalla stanza, guardando un’ultima volta
la donna magra sul letto. Passa davanti alla reception, evitando di guardare
negli occhi il portiere (Ombretta lo aveva morso più volte), saluta con un
sussurro.
Torna
nella sua casa. Il gatto la accoglie con il solito sospetto, si smarca dalle
carezze di Delia e si dirige verso la camera, sulla poltrona di pelle che ha
ormai fatto sua. Delia compie i gesti abituali, come in trance, pensando a
Ombretta, qualcosa si fissa nella sua memoria, come un fermo immagine. Non
riesce a distinguere l’illusione dei suoi strani sogni dalla realtà sensibile,
mangia dal frigorifero, non può compiere alcuno sforzo, neppure accendere un
fornello. Si spoglia lentamente, getta gli abiti lontano, si infila nella
vasca. Il verde degli occhi riflette la schiuma, che si fa onda, la candela
accesa emana un profumo di ambra. Delia non prova ansia stasera. Sente che
qualcosa sta per accadere, sente che qualcuno la chiamerà per dirle che
Ombretta è morta. Questa volta ne è sicura.
Spenge
il Buddha luminoso, dimentica la pasticca bianca, si addormenta subito e sogna
di donne androgine e belle, di capelli rossi e neri, sospesi nell’aria della
notte, sogna labbra dischiuse che chiamano a raccolta un esercito di creature,
in un sussurro quasi inudibile ma irresistibile. Si sveglia di soprassalto, lo
squillo del telefono, il Direttore “Sua zia non c’è più”. Non morta, proprio
sparita.
Una
mattina di sopralluoghi, poliziotti, infermieri, tutti a cercare in lungo e in
largo la vecchia Ombretta.
Ombretta
non c’è. Delia entra nella sua stanza, c’è una collana di ametiste, ci sono
capelli bianchi e rossi sul cuscino, la finestra è aperta, entra freddo.
Ombretta
non si trova. Delia sa che non è scappata a piedi. Delia ha fatto un sogno di
ombre, quel sogno è realtà.
Per
la prima volta Delia dorme senza sogni, profondamente, il gatto accoccolato sul
letto, si sveglia riposata. I suoi occhi verdi sono distesi e luminosi.
Davanti
allo specchio vede una ciocca rosso Tiziano tra i suoi capelli. Adesso sa che
il sogno è realtà e la realtà è sogno.
Raul
sta per tornare.
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