mercoledì 30 settembre 2020

CASI DELLA VITA di Roberta Sandrini

 I.

Appoggiato al guardrail aspetto che la nebbia cali.

Ho acceso una sigaretta, che si sta spegnendo fra le dita in lacrime di cenere; ho dato due boccate ed un sapore strano mi è salito dalla gola ed ha premuto contro il naso e le palpebre chiuse: ma non erano lacrime, sono sicuro, dovrei solo smettere.

Dalla strada la coltre che circondava il paese sembrava ancora più fitta di quella scesa a valle; la macchina fendeva un velo bianco e umido e qualche enorme macchia scura passava dietro quel sipario umidiccio, facendo capolino e ritirandosi da qualche misteriosa posizione in alto: ho accostato nel primo spiazzo che  è balenato alla mia destra, sono sceso e mi sono appoggiato allo sportello, la testa reclinata verso l’alto a fissare le ombre alte e nere che balenavano nel grigiore biancastro.

Mi avevi mai parlato del tuo paese? Certo che sì, ci siamo detti tante cose, figuriamoci, sto semplicemente invecchiando e non mi soffermo più sulle cose non essenziali, specialmente i ricordi.

E’ che ora, a ripensarci, fra il suono della tua voce, lo scoppiare delle tue risate, il brontolio acqueo delle tue recriminazioni, l’immagine che veniva fuori del posto dove eri nata era più quella di un villaggio di mattoni e pietre in pieno sole, con piccoli scorci di piazze da cavalli, ingentilite da qualche vaso di fiori semplici, margherite, rose senza pretese.

E ne veniva fuori sempre vuoto, senza neppure un’ombra a camminare lungo i muri: forse perché tu eri avulsa da fotografie del genere.

Invece lo spettacolo che si prospettava a qualche centinaio di metri sopra la mia testa, ora che il sipario della nebbia veniva tirato e la scena si rivelava e si allargava fra massi e rocce, era quello di lunghe case massiccie, di pietra scura e lucida, in bilico su un costone, né graziose né fragili, non grandi abbastanza da dominare la valle stretta sotto di loro ed affacciate sulla strada con disappunto, come vecchiette pettegole alla finestra, pronte a scappare alla prima occhiata storta o al primo cenno d’impazienza del passante.

Si sa che chi fa il mio mestiere non ne rende edotto chiunque incontri, anzi non ne parla neppure con la propria madre: in genere si aspetta di rimanere soli, o non si mette su famiglia se non quando non si è più tanto giovani ed il fisico inizia a fallire, per potercisi dedicare appieno e coscienziosamente.

E’ un’ottima maniera per essere affidabili e quindi poco o per niente ricattabili.

Nel mio lavoro poi, è il caso di dire, non sai mai chi ti capita: bisogna essere preparati alle sorprese.

Sarà stata allora la mia professionalità, riconosciuta ed apprezzata nell’ambiente, a non far trapelare niente, anzi a non farmi sentire niente, nel momento in cui ho scoperto il mio attuale compito: tu.

E poi dopo, quello che ho provato, che ho sentito scivolarmi addosso e sfuggire via, come pioggia, attraversarmi e passare oltre, lasciandomi addosso una leggera patina inodore e insapore, come vento polveroso, è stata solo un’insopprimibile nostalgia.

 

II.

Giro svogliato per queste stradine: l’umidità si taglia col coltello, non passa quasi nessuno, è più facile che qualcun’ altro si affacci alla finestra, incroci lo sguardo col mio e si ritiri, sbattendo rumorosamente i vetri.

No, non sono socievoli qui, nemmeno particolarmente ospitali: la proprietaria dell’unico affittacamere dove ho deciso di alloggiare mi dà svogliata il buongiorno, mi mette velocemente sotto il naso la colazione ed altrettanto frettolosamente riprende la tazza ed il piatto, senza profferire parola, con un’occhiata indagatrice, frenata solo dall’atavica saggezza che consiglia di farsi i fatti propri.

C’è poco di pittoresco nei muri scuri, intervallati da finestre piccole e strette e rari vasi di fiori, nei ciottoli del selciato, grandi, tondi e spesso scivolosi, nelle piazzette inanimate dove l’oscurità scende prima che i lampioni si accendano rossastri.

Solo da qualche angolo, aperto e acuto sul muraglione, quando non c’è nebbia, cosa rara in questa stagione, si allarga un paesaggio che pare finto, di colori forti, di linee nette, di alberi e massi ritagliati ed incollati su uno sfondo color latte da una mano maldestra, che non è riuscita a nascondere le linee grosse e nere che separano le figure dal tutto.

Potrebbe essere il collage di un scolaro precisino, fatto con i ritagli di una rivista di viaggi, viaggi in certe foreste alte e brune, minacciose e cupe.

Ho capito perché sei andata via, tu eri un’altra cosa, eri viva e colorata. Chissà perché ora dovevi passare di qui, presumo una rara ed improcrastinabile esigenza familiare o giù di lì altrimenti non si spiega.

 

 

 

 

III.

Quando ti ho conosciuta c’era una gran luce, che ti investiva da dietro, senza nasconderti, inghiottendoti in un alone bianco, ma anzi sottolineando coscienziosamente i tuoi fianchi, le spalle, i capelli raccolti stretti, la forma del viso ed ogni altro particolare di te.

Sembravi un quadro, un quadro dal vero e veritiero, senza sfumature. O una foto, modificata per far risaltare linee e colori.

Ed anche oggi, che ho dovuto ucciderti e cacciarti in fondo nel ricordo, c’era quella stessa luce.

Eri di spalle, nella piazzetta, guardavi aldilà del muro alto che sale dalla valle: la luce ti ritagliava decisa, dorata. Potevo vedere le colline ondulate delle spalle, la piccola brocca ad angoli morbidi del corpo.

Ho cercato di non pensare, ho anche serrato gli occhi per qualche momento, poi per fortuna è passato e mi sono incamminato a passi lunghi e svelti, cercando di allungare il più possibile le gambe e calcare bene e per esteso le piante dei piedi sul pavimento della piazza per non fare rumore.

Eri sola, non si vedeva nessuno, forse perché tirava un forte vento freddo, ma del resto scegliere il momento migliore per dar corso alle cose è una delle prime regole.

Non ti sei girata e questo ha reso la cosa più facile e mi permetterà di ricordare il tuo viso senza smorfie, senza sangue che cola dalla bocca, senza gli occhi sorpresi e sbarrati dei morti, che si scolorano veloci: a volte ho pensato che l’anima esca da lì, dagli occhi, dallo spazio angusto fra la palpebra e le pupille.

Ti sono passato velocemente alle spalle, ho fatto fare capolino alla mano da sotto la falda del cappotto ed ho sparato senza guardare, cercando già l’itinerario da seguire per uscire dalla piazza, risalire in macchina ed allontanarmi né troppo piano né troppo velocemente.

Un breve suono rauco, nessun eco di una caduta: non potevo voltarmi ovviamente, ma se avessi potuto non mi sarei meravigliato di ritrovarti ancora in piedi, a farti esaltare dalla luce.

Quando alla fine sono salito in macchina ed ho alzato lo sguardo oltre il volante, una lunga lingua di nebbia aveva già scavalcato il bordo della strada e si preparava ad inghiottirlo.


 

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