Non
era stato semplice, all’inizio, durante i primi tentativi.
Una
scelta così radicale, dettata dalla necessità di non confrontarsi con nessuno e
di lasciarsi andare stancamente alla deriva, per forza di cose non poteva
essere troppo facilmente perseguibile. La cosa aveva richiesto dedizione,
attaccamento, sperimentazione. In un rinnovato incasellamento del dipanarsi
giornaliero, fatto di distacco dalle abitudini, di camminate lungo le vie meno
battute (testa china e passo lento) attento a non intralciare nessuno.
E
silenzio.
Non
chiedere, non sorridere, non dare adito, tacere.
Niente
giornali da comperare, niente colazione al bar, minima spesa nel piccolo
supermarket dietro la piazza. Pagando sempre in contanti, senza chiedere borse
di plastica, rifiutando i punti regalo con un lieve gesto di diniego della
mano, mai ricaricando il telefono alla cassa.
E
poi la posta lasciata ad affacciarsi disordinatamente dalla cassetta, i panni
stesi ad asciugare all’interno dell‘appartamento, la macchina parcheggiata
quattro isolati più in là, con l’unico obbligo di ricordarsi di spostarla, la
notte del terzo martedì del mese, in occasione della pulizia delle strade.
Un
lento dissolversi nella comunità.
Fino
a non farvi più parte, quella parte in fondo di contorno, che aveva portato
avanti nei sei mesi precedenti, prima che accadesse che la perdita si facesse
più sorda e meno lancinante, più completa ma meno sensibile alle sollecitazioni
esterne.
Non
esserci, per incominciare. Non appartenere nemmeno più alle chiacchiere bonarie
dei condòmini, al panorama raramente mutante degli anziani seduti sulle
panchine o alla curiosità dei nuovi arrivati, desiderosi di sapere, capire,
controllare.
E
successivamente, sparire del tutto.
Alla
vista attenta come a quella casuale, agli occhi indagatori e a quelli vaganti
sovrappensiero, alle orecchie in ascolto e a quelle confuse dalla ridondanza
dei suoni.
Rendersi
invisibile: colore nei colori, silenzio nel silenzio, respiro nell’aria.
Un
venerdì di settembre, finalmente, si rese conto che gli sguardi lo
attraversavano: non solo non rimbalzavano sul suo completo stazzonato di color
celeste, ma nemmeno vi scivolavano o lo aggiravano. Andavano via dritti, ad
appoggiarsi su qualcosa alle sue spalle, senza che niente ne ostacolasse il
percorso. Poteva addirittura guardare direttamente le persone negli occhi,
senza che la sua immagine, anche appena percettibile, si disegnasse sulla loro
retina. Oppure rimanere seduto al tavolino del bar anche per mezz’ora, prima
che, titubante, una cameriera si avvicinasse stranita dal fatto di non essersi
accorta del suo arrivo. E talvolta, da lì, anche andarsene senza pagare,
lasciando la cassiera a riflettere su chi effettivamente avesse consumato quel
cappuccino lasciato a metà al tavolino diciotto.
La
mattina che guardandosi allo specchio non si vide riflesso, capì che la
sparizione era completata e non era più necessario mettere in atto tutta quella
serie di strategie a cui si era precedentemente uniformato. Si sentì in qualche
maniera libero: di uscire, guardarsi intorno, soffermarsi più a lungo sulle
cose, anziché sull’evitare le persone. Libero di camminare al passo che
preferiva, nel tempo a disposizione, verso le direzioni più variabili
possibili. Fece anche una giravolta su sé stesso, allargo le braccia davanti ad
una signora cinquantenne piena di pacchetti, sorrise al vigile che stava
sistemando la multa sul cruscotto di una vecchia Panda: senza che nessuno si
accorgesse minimamente di lui. Senza che la sua immagine venisse restituita da
una qualunque superficie riflettente.
E
anche se nel momento in cui si mise a piovere, in qualche maniera si spaventò
del fatto che non sentiva le gocce d’acqua scivolare lungo il viso, si disse
che stava bene, in questa solitudine sospesa, ancora appesa al dolore non
cancellato.
Fu
qualche giorno dopo, che vide per la prima volta la sagoma.
Sul
muro di fronte al cinema ormai chiuso, incastrata tra una banale frase d’amore
e la pubblicità di una palestra con sauna ed annessi. Solo il contorno di un
uomo, apparentemente in attesa. Nessun volto, nessun accessorio. Si fermò a
guardarla per qualche secondo e proseguì.
Ma
il giorno dopo, quasi inconsapevolmente, si fermò a fissarla per più di un
minuto.
Non
vi fu mattina, da allora, in cui non passasse a dare un’occhiata, un saluto, un
distratto sguardo alla ricerca di una consunzione o di un ampliamento. Che non
si palesava.
Si
accorse che dalla panchina in fondo alla piazza, vicino al pretenzioso parco
giochi fatto di uno scivolo e poco più, riusciva a tenere la sagoma sotto
controllo. Per cui si risolse a passare delle lunghe ore lì, semplicemente
stando, osservando la gente che passava, i bambini che giocavano, gli anziani o
i ragazzini flirtanti che si sedevano inconsapevolmente al suo fianco.
E
intanto scopriva che nel nulla, in cui era lentamente scivolato, vi erano ora
insoliti spazi da riempire, feritoie in cui lasciare entrare senza patimento,
varchi di non belligeranza con il mondo tutto.
Giorno
dopo giorno, fino a oggi, fino a questo momento stralunato in cui un bambino
gli si ferma davanti e prima di correre a giocare gli dice “Buona giornata
Teo”.
Allora
di colpo Teo dirige lo sguardo verso il solito muro e scopre che la sagoma ora
ha occhi, bocca, capelli. E mani, piedi ed un buffo cappello. Che altro non è
che il suo.
Un
ragazzo con una bomboletta in mano si allontana. E a lui sembra che faccia un
gesto di saluto.
Oppure
è solo un riverbero di luce.
Forse
è ora di ritirare la posta.
Nessun commento:
Posta un commento