lunedì 17 settembre 2018

FINO A RITROVARTI SUI MURI di Andrea Mitri


Non era stato semplice, all’inizio, durante i primi tentativi.
Una scelta così radicale, dettata dalla necessità di non confrontarsi con nessuno e di lasciarsi andare stancamente alla deriva, per forza di cose non poteva essere troppo facilmente perseguibile. La cosa aveva richiesto dedizione, attaccamento, sperimentazione. In un rinnovato incasellamento del dipanarsi giornaliero, fatto di distacco dalle abitudini, di camminate lungo le vie meno battute (testa china e passo lento) attento a non intralciare nessuno.
E silenzio.
Non chiedere, non sorridere, non dare adito, tacere.
Niente giornali da comperare, niente colazione al bar, minima spesa nel piccolo supermarket dietro la piazza. Pagando sempre in contanti, senza chiedere borse di plastica, rifiutando i punti regalo con un lieve gesto di diniego della mano, mai ricaricando il telefono alla cassa.
E poi la posta lasciata ad affacciarsi disordinatamente dalla cassetta, i panni stesi ad asciugare all’interno dell‘appartamento, la macchina parcheggiata quattro isolati più in là, con l’unico obbligo di ricordarsi di spostarla, la notte del terzo martedì del mese, in occasione della pulizia delle strade.
Un lento dissolversi nella comunità.
Fino a non farvi più parte, quella parte in fondo di contorno, che aveva portato avanti nei sei mesi precedenti, prima che accadesse che la perdita si facesse più sorda e meno lancinante, più completa ma meno sensibile alle sollecitazioni esterne.
Non esserci, per incominciare. Non appartenere nemmeno più alle chiacchiere bonarie dei condòmini, al panorama raramente mutante degli anziani seduti sulle panchine o alla curiosità dei nuovi arrivati, desiderosi di sapere, capire, controllare.
E successivamente, sparire del tutto.
Alla vista attenta come a quella casuale, agli occhi indagatori e a quelli vaganti sovrappensiero, alle orecchie in ascolto e a quelle confuse dalla ridondanza dei suoni.
Rendersi invisibile: colore nei colori, silenzio nel silenzio, respiro nell’aria.
Un venerdì di settembre, finalmente, si rese conto che gli sguardi lo attraversavano: non solo non rimbalzavano sul suo completo stazzonato di color celeste, ma nemmeno vi scivolavano o lo aggiravano. Andavano via dritti, ad appoggiarsi su qualcosa alle sue spalle, senza che niente ne ostacolasse il percorso. Poteva addirittura guardare direttamente le persone negli occhi, senza che la sua immagine, anche appena percettibile, si disegnasse sulla loro retina. Oppure rimanere seduto al tavolino del bar anche per mezz’ora, prima che, titubante, una cameriera si avvicinasse stranita dal fatto di non essersi accorta del suo arrivo. E talvolta, da lì, anche andarsene senza pagare, lasciando la cassiera a riflettere su chi effettivamente avesse consumato quel cappuccino lasciato a metà al tavolino diciotto.
La mattina che guardandosi allo specchio non si vide riflesso, capì che la sparizione era completata e non era più necessario mettere in atto tutta quella serie di strategie a cui si era precedentemente uniformato. Si sentì in qualche maniera libero: di uscire, guardarsi intorno, soffermarsi più a lungo sulle cose, anziché sull’evitare le persone. Libero di camminare al passo che preferiva, nel tempo a disposizione, verso le direzioni più variabili possibili. Fece anche una giravolta su sé stesso, allargo le braccia davanti ad una signora cinquantenne piena di pacchetti, sorrise al vigile che stava sistemando la multa sul cruscotto di una vecchia Panda: senza che nessuno si accorgesse minimamente di lui. Senza che la sua immagine venisse restituita da una qualunque superficie riflettente.
E anche se nel momento in cui si mise a piovere, in qualche maniera si spaventò del fatto che non sentiva le gocce d’acqua scivolare lungo il viso, si disse che stava bene, in questa solitudine sospesa, ancora appesa al dolore non cancellato.
Fu qualche giorno dopo, che vide per la prima volta la sagoma.
Sul muro di fronte al cinema ormai chiuso, incastrata tra una banale frase d’amore e la pubblicità di una palestra con sauna ed annessi. Solo il contorno di un uomo, apparentemente in attesa. Nessun volto, nessun accessorio. Si fermò a guardarla per qualche secondo e proseguì.
Ma il giorno dopo, quasi inconsapevolmente, si fermò a fissarla per più di un minuto.
Non vi fu mattina, da allora, in cui non passasse a dare un’occhiata, un saluto, un distratto sguardo alla ricerca di una consunzione o di un ampliamento. Che non si palesava.
Si accorse che dalla panchina in fondo alla piazza, vicino al pretenzioso parco giochi fatto di uno scivolo e poco più, riusciva a tenere la sagoma sotto controllo. Per cui si risolse a passare delle lunghe ore lì, semplicemente stando, osservando la gente che passava, i bambini che giocavano, gli anziani o i ragazzini flirtanti che si sedevano inconsapevolmente al suo fianco.
E intanto scopriva che nel nulla, in cui era lentamente scivolato, vi erano ora insoliti spazi da riempire, feritoie in cui lasciare entrare senza patimento, varchi di non belligeranza con il mondo tutto.
Giorno dopo giorno, fino a oggi, fino a questo momento stralunato in cui un bambino gli si ferma davanti e prima di correre a giocare gli dice “Buona giornata Teo”.
Allora di colpo Teo dirige lo sguardo verso il solito muro e scopre che la sagoma ora ha occhi, bocca, capelli. E mani, piedi ed un buffo cappello. Che altro non è che il suo.
Un ragazzo con una bomboletta in mano si allontana. E a lui sembra che faccia un gesto di saluto.
Oppure è solo un riverbero di luce.
Forse è ora di ritirare la posta.

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