Mi chiamo Neve. E dietro alla scelta
del nome c'è ben poco di fantasioso. Infatti sono nata durante l'apocalittica
nevicata dell'ottantacinque, per l'esattezza il quindici gennaio, con quasi un
metro e mezzo di muro bianco a bloccare le strade. Partorita in casa, in
condizioni di emergenza, ci sono rimasta per altri tre giorni e mezzo.
Aspettando che qualcuno potesse portarmi all'ospedale più vicino, quello di
Luino.
Sarà stato in quel preciso istante,
durante i primi gemiti incazzati, che ho deciso di ribellarmi all'idea di
restare in quel minuscolo paese della Val Veddasca.
Da bambina mi sono persa nei boschi per
quattro volte. Poi, quando ho imparato a conoscerli, ho cominciato a tentare la
fuga verso posti più abitati, più aperti, più vivi. Tante, tantissime volte.
Forse troppe. Uscivo per andare a prendere la corriera che mi portasse a valle,
dove c'era la scuola più vicina, poi sparivo. Per giorni interi. La città e la
stazione erano una calamita troppo forte per il magnete di curiosità che mi
portavo dentro. Proprio per questo motivo, ho avuto il privilegio di possedere
un'assistente sociale tutta per me, che potesse sorvegliare me e le mie
migrazioni a orologeria.
A sedici anni avevo già girato quasi
tutte le città del nord Italia. A diciassette, passeggiavo sul pavimento liscio
di Roma Termini e, a diciotto, ero finalmente libera di andarmene dove volevo.
Ho preparato lo zainetto l'ultima sera da minorenne, mentre mia madre mi
osservava con una maschera di rabbia che nascondeva un volto intristito. La
mattina mi sono alzata presto e li ho salutati. Prima mia madre, poi mio padre.
Entrambi, in silenzio, sapevano che non potevano chiedermi dove sarei andata e
quando avrei fatto ritorno. Mi hanno accompagnato con lo sguardo fuori dalla
porta di casa, forse addirittura sino alla fermata della corriera, da dietro i
vetri della finestra della cucina. Mi sembrava di vederli, con una mano a scostare
la tenda ricamata per guardarmi sparire all'arrivo della solita, maledetta
corriera.
E' proprio così che Neve è sparita dal
paese in cui è nata.
Sono partita candida come il mio nome e
soleggiata come il giorno di gennaio del mio diciottesimo compleanno. Ignoravo
quanti segni potesse lasciarmi il mondo, oltre quelle maledette valli in cui,
oggi, a trentatré anni suonati, ho deciso di fare ritorno.
Smagrita, tatuaggi opachi che macchiano
la pelle, capelli cortissimi e i segni dei piercing che pare proprio non
vogliano andarsene. Sono le cicatrici dei miei vent'anni. Quando non ero più
Neve, ma Emma.
Emma ha vissuto in diversi squat e in
svariate case occupate. Ha partecipato in prima linea alle manifestazioni degli
antagonisti, con il casco sul volto, poi degli animalisti, scavalcando le reti
di allevamenti lager. Si è presa manganellate e spintoni. Ha sputato addosso
agli sbirri. E' stata arrestata un paio di volte e poi rilasciata. Emma si è
calata numerose sostanze. Senza alcuna fune. Ha provato di tutto, forse anche
di più. Ora si fa solo qualche canna prima di andare a dormire, per
tranquillizzare l'animo inquieto, e si beve qualche birra coi pochi amici
rimasti. Ma i suoi denti sono segnati dagli eccessi, da quel desiderio
sterminato di scoprire, di muoversi a tentoni in dimensioni sconosciute. Ha
ballato per giorni interi e si è addormentata nel furgone di qualche amico
senza nome. Ha scopato con e senza preservativo, fottendosene di tutto quanto,
anche di se stessa. Emma si è persa a Berlino, a Londra, a Goa e, non sa
nemmeno perché, in Romania. Non le serve scavare tanto per trovare il motivo,
sa che probabilmente era strafatta quando ha deciso di finirci. Le interessa
soltanto che a Bucarest ha trovato il piccolo Cash, come Johnny Cash. Un
cucciolo smilzo, colorato di beige e impacciato, che girava per strada tutto
solo. Un po' come lei. Avrà avuto un paio di mesi. Lei lo ha preso tra le
braccia e se lo è portato con sé. Da allora non se ne stacca mai. Tanto meno
ora, che sta tornando tra quelle valli in cui ha sempre faticato a respirare.
E' qualche mese che sono tornata a
farmi chiamare Neve. E ancora mi suona parecchio strano. Mi guardo il tatuaggio
sul braccio con cui ho consacrato il cambiamento, quel nome Emma ormai
sbiadito. Provo a grattarmelo via con le unghie e mi sento stupida. Stupida per
essermi fatta quel tatuaggio e per come mi vedranno i miei genitori, dopo
quindici ingiustificabili anni di assenza. Mi domando se mi accetteranno e
perché mi importi di essere accettata ora che sono una donna. Non più fatta e
non più finita.
Arrivo alla stazione di Luino e mi
sembra di essere tornata indietro nel tempo. Tutto sembra identico a quando me
ne sono andata. Mi incammino fuori, verso la fermata della corriera, e trovo
tutto terribilmente uguale. Anche i volti delle persone che gettano le tipiche
occhiatacce di chi solleva una barriera. Stare sulla difensiva sembra un
difetto genetico di queste parti. Comincio a risentire le sensazioni che mi
hanno portato a scappare da tutto questo. Magari, uno di questi giorni, vado in
Comune per spiegare quelle sensazioni all'assistente sociale che seguiva il mio
caso. Sono sicura che sarà ancora a sputare santissime verità dalla stessa
scrivania nel medesimo ufficio. Sorrido all'idea, e mi siedo ad attendere la
corriera con il piccolo Cash, che non perde occasione per mordicchiare le
stringhe delle mie vecchie Doctor Martens.
Arriva, salgo a bordo, mostro il
biglietto, e mi siedo in attesa che cominci a inerpicarsi tra i tornanti di
quelle montagne in cui sono nata, cresciuta e da cui sono scappata, a gambe
levate. Arriviamo al paese, mi guardo attorno per poi lanciare un'occhiata là
davanti, dove vedo la casa dei miei. Scendo, ringrazio l'autista che
stranamente non conosco, slego Cash e mi avvio verso la casa che pare uguale a
sempre. Anzi, a guardare bene, il giovane melo è diventato un albero, ed è
anche in fiore. Dirigo lo sguardo verso la finestra della cucina e vedo che la
tenda ricamata è scostata dal vetro. Qualcuno mi sta osservando. Chissà che non
mi stia anche aspettando, da un tempo che ormai sa quasi di eternità.
Nessun commento:
Posta un commento