lunedì 17 settembre 2018

NEVE di Massimiliano Piccolo


Mi chiamo Neve. E dietro alla scelta del nome c'è ben poco di fantasioso. Infatti sono nata durante l'apocalittica nevicata dell'ottantacinque, per l'esattezza il quindici gennaio, con quasi un metro e mezzo di muro bianco a bloccare le strade. Partorita in casa, in condizioni di emergenza, ci sono rimasta per altri tre giorni e mezzo. Aspettando che qualcuno potesse portarmi all'ospedale più vicino, quello di Luino.

Sarà stato in quel preciso istante, durante i primi gemiti incazzati, che ho deciso di ribellarmi all'idea di restare in quel minuscolo paese della Val Veddasca.
Da bambina mi sono persa nei boschi per quattro volte. Poi, quando ho imparato a conoscerli, ho cominciato a tentare la fuga verso posti più abitati, più aperti, più vivi. Tante, tantissime volte. Forse troppe. Uscivo per andare a prendere la corriera che mi portasse a valle, dove c'era la scuola più vicina, poi sparivo. Per giorni interi. La città e la stazione erano una calamita troppo forte per il magnete di curiosità che mi portavo dentro. Proprio per questo motivo, ho avuto il privilegio di possedere un'assistente sociale tutta per me, che potesse sorvegliare me e le mie migrazioni a orologeria.

A sedici anni avevo già girato quasi tutte le città del nord Italia. A diciassette, passeggiavo sul pavimento liscio di Roma Termini e, a diciotto, ero finalmente libera di andarmene dove volevo. Ho preparato lo zainetto l'ultima sera da minorenne, mentre mia madre mi osservava con una maschera di rabbia che nascondeva un volto intristito. La mattina mi sono alzata presto e li ho salutati. Prima mia madre, poi mio padre. Entrambi, in silenzio, sapevano che non potevano chiedermi dove sarei andata e quando avrei fatto ritorno. Mi hanno accompagnato con lo sguardo fuori dalla porta di casa, forse addirittura sino alla fermata della corriera, da dietro i vetri della finestra della cucina. Mi sembrava di vederli, con una mano a scostare la tenda ricamata per guardarmi sparire all'arrivo della solita, maledetta corriera.
E' proprio così che Neve è sparita dal paese in cui è nata.
Sono partita candida come il mio nome e soleggiata come il giorno di gennaio del mio diciottesimo compleanno. Ignoravo quanti segni potesse lasciarmi il mondo, oltre quelle maledette valli in cui, oggi, a trentatré anni suonati, ho deciso di fare ritorno.
Smagrita, tatuaggi opachi che macchiano la pelle, capelli cortissimi e i segni dei piercing che pare proprio non vogliano andarsene. Sono le cicatrici dei miei vent'anni. Quando non ero più Neve, ma Emma.

Emma ha vissuto in diversi squat e in svariate case occupate. Ha partecipato in prima linea alle manifestazioni degli antagonisti, con il casco sul volto, poi degli animalisti, scavalcando le reti di allevamenti lager. Si è presa manganellate e spintoni. Ha sputato addosso agli sbirri. E' stata arrestata un paio di volte e poi rilasciata. Emma si è calata numerose sostanze. Senza alcuna fune. Ha provato di tutto, forse anche di più. Ora si fa solo qualche canna prima di andare a dormire, per tranquillizzare l'animo inquieto, e si beve qualche birra coi pochi amici rimasti. Ma i suoi denti sono segnati dagli eccessi, da quel desiderio sterminato di scoprire, di muoversi a tentoni in dimensioni sconosciute. Ha ballato per giorni interi e si è addormentata nel furgone di qualche amico senza nome. Ha scopato con e senza preservativo, fottendosene di tutto quanto, anche di se stessa. Emma si è persa a Berlino, a Londra, a Goa e, non sa nemmeno perché, in Romania. Non le serve scavare tanto per trovare il motivo, sa che probabilmente era strafatta quando ha deciso di finirci. Le interessa soltanto che a Bucarest ha trovato il piccolo Cash, come Johnny Cash. Un cucciolo smilzo, colorato di beige e impacciato, che girava per strada tutto solo. Un po' come lei. Avrà avuto un paio di mesi. Lei lo ha preso tra le braccia e se lo è portato con sé. Da allora non se ne stacca mai. Tanto meno ora, che sta tornando tra quelle valli in cui ha sempre faticato a respirare.

E' qualche mese che sono tornata a farmi chiamare Neve. E ancora mi suona parecchio strano. Mi guardo il tatuaggio sul braccio con cui ho consacrato il cambiamento, quel nome Emma ormai sbiadito. Provo a grattarmelo via con le unghie e mi sento stupida. Stupida per essermi fatta quel tatuaggio e per come mi vedranno i miei genitori, dopo quindici ingiustificabili anni di assenza. Mi domando se mi accetteranno e perché mi importi di essere accettata ora che sono una donna. Non più fatta e non più finita.

Arrivo alla stazione di Luino e mi sembra di essere tornata indietro nel tempo. Tutto sembra identico a quando me ne sono andata. Mi incammino fuori, verso la fermata della corriera, e trovo tutto terribilmente uguale. Anche i volti delle persone che gettano le tipiche occhiatacce di chi solleva una barriera. Stare sulla difensiva sembra un difetto genetico di queste parti. Comincio a risentire le sensazioni che mi hanno portato a scappare da tutto questo. Magari, uno di questi giorni, vado in Comune per spiegare quelle sensazioni all'assistente sociale che seguiva il mio caso. Sono sicura che sarà ancora a sputare santissime verità dalla stessa scrivania nel medesimo ufficio. Sorrido all'idea, e mi siedo ad attendere la corriera con il piccolo Cash, che non perde occasione per mordicchiare le stringhe delle mie vecchie Doctor Martens.
Arriva, salgo a bordo, mostro il biglietto, e mi siedo in attesa che cominci a inerpicarsi tra i tornanti di quelle montagne in cui sono nata, cresciuta e da cui sono scappata, a gambe levate. Arriviamo al paese, mi guardo attorno per poi lanciare un'occhiata là davanti, dove vedo la casa dei miei. Scendo, ringrazio l'autista che stranamente non conosco, slego Cash e mi avvio verso la casa che pare uguale a sempre. Anzi, a guardare bene, il giovane melo è diventato un albero, ed è anche in fiore. Dirigo lo sguardo verso la finestra della cucina e vedo che la tenda ricamata è scostata dal vetro. Qualcuno mi sta osservando. Chissà che non mi stia anche aspettando, da un tempo che ormai sa quasi di eternità.

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