lunedì 17 settembre 2018

UN MINUTO di Francesco Chiantese

E’ come attraversare uno strato sottilissimo e spesso assieme; come qualcosa che la natura abbia voluto così affinché il suo attraversamento fosse solo il frutto di una scelta ben ponderata, di una volontà, e non del caso o della necessità di arrendersi ad una situazione.
Un istante prima che tutto ti avvolga chiudi gli occhi: non vedere, non sentire, non credere che sia vero.
L’istante immediatamente dopo, invece, l’unica cosa che sai fare è una lunga e profonda inspirazione.
Non lo scegli, è il tuo corpo a scegliere per te.
Le prime boccate fanno sì che la gola si chiuda di colpo; come quando accade qualcosa di amaro e tu pensi che sia la vita ad essere fatta così, ed allora ingoi un po’ di saliva e trattieni il respiro per qualche istante.
Solo che questa volta, il tuo corpo, decide di trattenere il respiro per un po' di più che qualche istante, come se avesse paura che la verità liquida che ha cominciato ad accoglierti gli scivoli dentro.
Il corpo tutto, con un fremito che pare partire dalle ossa più che dai muscoli, con un tremore che fa coincidere le sue radici con quelle dello stesso corpo, comincia ad agitarsi; si muove in maniera disarmonica, sghemba, come in una danza inorganica, come per liberarsi di un tessuto, una coltre pesante.
Dicono che duri solo un minuto; a me è parso un tempo lungo quanto quello di cui ha bisogno la mente per arrendersi ad un’evidenza che non si vuole accettare.
Tutto, poi, esplode; ogni apertura, ogni difesa, tutto si spalanca.
I tentativi di respiro si fanno sghembi, frammentati, innaturali; ad ogni boccata sembra che i polmoni chiedano al petto, alle spalle, alle natiche, alle braccia, alle cosce, alle mani, ai piedi di farsi tramite per l’ossigeno; il cervello sembra implorare ad ogni cellula del proprio sangue di restituire il proprio ossigeno, ad ogni cellula della propria pelle di farsi tramite con il mondo di fuori della necessità di un respiro...ed invece è l’acqua, e non l’aria, ad entrare da ogni varco gli sia disponibile, ad allargare i pori, a renderti parte di se.
Il cervello è il primo ad arrendersi.
Dalla punta dei piedi fino alle tempie ho sentito il mio corpo rilassarsi, lasciarsi andare, cedere arrendevole come se l’anima stesse salutando uno alla volta, appellandole, tutte le parti del corpo che l’avevano contenuta.
Come una carezza delicata, consapevole e sensuale, l’anima sfiora il corpo entrando a contatto con esso, per la prima volta, dall’esterno.
Nessuna agitazione, nessun dolore, nessun peso, nessun bisogno di respirare.
Dicono che anche questa fase duri un minuto, ed io spero mi basti, perché è da questo minuto silenzioso in mezzo ad un mare che non è nostro come dicevano, che io ho la sensazione di potervi parlare.
A chi? A tutti voi ed a me.
Con la stessa voce con cui un uccello parla all’altro uccello e contemporaneamente a tutto lo stormo.
Esistono terre che non avrei voluto lasciare ed altre che non avrei voluto calpestare.
Sguardi che vorrei fossero sempre il mio solo orizzonte ed altri che non avrei mai voluto incrociare.
Mani che vorrei continuassero ad accarezzarmi, ancora una volta, ancora una volta almeno, ed altre che senza scelta ho dovuto incontrare.
Esistono viaggi che ho sognato di fare, ed altri che ho avuto il terrore di accettare.
Giorni che avrei voluto non finissero mai, ed altri che non dovrebbero essere mai iniziati.
Esiste tutto questo eppure tutto questo non esiste più; per meglio insegnarmi cos’è un confine, mi avete inscritto in un confine.
Avete reso sottile il mio spazio ed il mio tempo perché non mi appartenessero più.
Avete teso una linea di gesso sulla terra per distinguere quello che vi appartiene da quello che appartiene ad altri, e di quella linea avete fatto la casa di coloro a cui non appartiene niente.
Una linea, però, è troppo sottile per un uomo; non si può vivere dove non si può danzare, non si può vivere dove non si può fare l’amore, non si può vivere dove non si può vedere un figlio crescere, non si può vivere dove non si può seppellire le proprie madri.
Adesso siamo qui, perché siamo appartenuti ad una terra che non ci apparteneva, e la vita ci ha spinto ad un viaggio per cui non avevamo passaporto.


                                                            Immagine di Candia Castellani

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