giovedì 27 dicembre 2018

SUOR MARIA di Roberta Sandrini


Suor Maria Crocifissa della Concezione (nome monastico di Isabella Tomasi, antenata di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che nel Gattopardo la ricorderà con lo pseudonimo di Beata Corbera) l’11 agosto 1676 (aveva 31 anni), venne trovata nella sua cella seduta a terra, con le mani ed il viso sporche d’inchiostro.
Nelle stesse mani aveva una lettera, scritta in caratteri incomprensibili, che, a suo dire, le era stata dettata dal diavolo.
Fra i vari simboli, riportati sulla lettera, spiccava in modo intellegibile solo la parola OHIME’, firma della monaca, recalcitrante agli ordini del demonio.

Eccellenza reverendissima, voi non sapete quanto vorrei avere i loro occhi, quelli di tutti coloro che vedono questi miei quattro scarabocchi e semplicemente deducono che io sia molto stanca, provata dalle mie rinunce in nome di Nostro Signore Gesù Cristo, dai digiuni, dai lunghi giorni in preghiera.
E benevolmente mi invitano al riposo ed a meditazioni meno prolungate, certi che in tal modo le suggestioni che mi agitano, e che a tarda notte mi spingono a riempire di segni incomprensibili, a me per prima, due paia di povere, ristrette paginette, si placheranno, e che la mia povera mente ritroverà serenità.
Sgombra è , in verità, la loro mente, da ogni pensiero distorto ed impuro, malgrado certo non consumino le loro esistenze in lunghe preghiere, lunghi soliloqui sulla lettura delle Sacre Scritture, lunghi trattenimenti nella cappella del nostro convento, in vana ricerca di un briciolo di serenità: semplice è la loro mente ed il loro cuore, lineare, tanto da trattare questi miei tormenti come certi fastidi, derivati da un colpo d’aria fredda, che si curano mettendosi al riparo qualche giorno ed interrompendo le occupazioni all’aperto, nell’orto o nel giardino, e ponendosi a riposo, in attesa ripagata della cessazione di ogni malessere.
Se penso, Eccellenza mia reverendissima, di aver pensato anch’io a volte le stesse cose, e di aver interrotto per qualche giorno le esercitazioni spirituali, nella vana attesa di un ristoro dai miei tormenti, passeggero o duraturo: che però, al punto in cui mi ritrovo, non saprei dirvi se questo pensiero fu frutto di mia personale, sincera afflizione, ed intimo desiderio di superare i miei mali, od ispirazione della malefica Creatura.
Che il giorno in cui mi ritrovarono le mie consorelle, sul pavimento della cella, prostrata e sfinita, con in mano ciò che Lui mi aveva con insistenza richiesto, fu solo la fine di un tormento cominciato notti appresso.
E ben ricordo la prima volta, quando postami sul mio lettuccio, litigando con la calura per prender sonno, quelle quattro stelle bianche e luminose, che mi mandano un po’ di luce benevola dalla finestrella della mia cella, fu come se si spengessero all’improvviso.
Nel buio che era così calato, la calura si mutò in soffio gelido, che sembrò infilarsi nella mia schiena e correre via veloce, fino alla pianta dei piedi.
Spaventata ed afflitta, mi avvolsi come meglio potevo nella povera copertuccia, che per il calore di pochi minuti prima avevo ripiegato sul fondo del letto.
Tutto, nella mia cella, sapeva di attesa trepidante, sì, ma di qualcosa di oscuro e sinistro.
E più oscuro del suo fondo già nero e buio si era fatto un angolo della mia cella, ed in quell’angolo si aprirono, improvvisi, due occhi, bianchi di perla, come due tazze ben riempite fino all’orlo di candido latte appena munto, ma con nel mezzo due tondi spilli rossi di sangue.
Essi mi fissavano imperiosi e sprezzanti, ed in essi era già contenuta una richiesta ben precisa, per quanto non sapessi ancora di cosa si trattasse.
Credetemi, Eccellenza mia reverendissima, se vidi dico come malgrado il grande spavento che mi aveva comprensibilmente preso, finendo di gelarmi tutto il corpo, dall’attaccatura dei capelli alle unghie dei piedi, io misera fossi allo stesso tempo calma nel profondo di mè stessa, quella poca ed insignificante calma, che conforto non reca bensì è preludio di una nuova e maggior disperazione, di colui che ha inteso e capito, nel lampo che gli attraversa la mente, cosa è accaduto, cosa sta accadendo e cosa accadrà.
Ebbene avevo inteso, Eccellenza, chi era colui che mi fissava dall’angolo buio e che egli aveva una richiesta per me.
Per quanto, per alcune notti, questa scena si sia ripetuta senza una parola né un suono che attraversassero l’aria: ed ogni notte una nuova pena, un nuovo nodo d’angoscia, mi stringeva il cuore e mi chiudeva la gola, rendendomi muta ed inerme, quasi come mi fossi già posta, e mi fa orrore pensarci, in attesa di un suo cenno, di un suo comando.
Alla quinta notte infine Eccellenza, i due punti rossi galleggiarono nei laghi di latte degli occhi fino al loro angolo più estremo, ad indicarmi quei pochi fogli, poggiati sul tavolinetto della mia cella, che la nostra amata regola ci permette di tenere con noi, per augurare con la scrittura la pace e la serenità di Cristo  a coloro che ci rimangono, aldilà di queste mura.
E fu così che un nuovo tormento iniziò.
Essendomi io posta a sedere, la sera dopo, prima di recitare le orazioni, davanti a quei fogli, ed avendo subito tentato, confusa e colma di rimorso, di alzarmi, una forza soverchiante mi schiacciò sulla sedia, comprimendomi il petto e togliendomi più volte il respiro, fin quasi ad avere la sensazione di stare abbandonando questo mondo, e lasciandomi solo quando accennavo a restar seduta: e tale supplizio durò tutta la notte, impedendo di dormire.
Le mattine successive, alla prima messa, sentivo gli sguardi perplessi e preoccupati delle consorelle scorrere sul mio viso e sulla mia persona: ed io subito abbassavo gli occhi e poi mi prendevo il viso tra le mani, tentando di ripetere un maggior numero di preghiere possibile, senza disperdere la mia povera lingua e la mia povera mente.
Eccellenza mia reverendissima, cedetti alla quinta notte: poco, pochissimo bastò al Maligno per avere ragione di me, così misera e blanda si è rivelata la mia fede.
E su questo non sprecherò parole, essendo in cuor mio così sicura di aver peccato, da reputare inutile e vano ogni tentativo di discolparmi, convinta ormai che solo Nostro Signore, nel giorno in cui giudicherà i vivi ed i morti, potrà, se vorrà, cancellare la mia colpa, usando della mia misericordia.
Che invero Egli, non appena sentì venir meno, la mia volontà, subito mi prevaricò, occupando la mia mente e guidando in tal modo la mia mano, che afferrò il pennino e cominciò furiosamente a vergare quegli strani segni, che pure Voi avete visto.
Segni di cui non conosco né il senso né il significato Eccellenza.
Esausta, una volta compiuta l’infausta opera, mi gettai sul mio lettuccio e finalmente sprofondai in un lungo sonno, più buio delle notti che avevo attraversato.
Al risveglio la luce del giorno mi parve finalmente uguale a quella di tutte le altre mattine che il Signore mi aveva inviato in questo mondo, ma il sollievo fu breve, e durò finché il mio sguardo non si posò sui pochi miseri fogli, ancora poggiati sul tavolinetto.
Quei segni storpi, misteriosi e bensì ridicoli mi parsero esplodere e confondersi, mescolarsi gli uni con gli altri e poi di nuovo separarsi per iniziare un’empia danza, vorticosa e folle, sotto i miei occhi, finché questi non si riempirono di lacrime.
Imposi le mie mani sui fogli e tentai di stropicciarli, nel vano tentativo di cancellare tutto, benché l’inchiostro fosse ormai asciugato.
Prostrata ed infelice, mi sono infine lasciata scivolare lungo la parete della cella, lì dove le consorelle mi hanno trovata.
Perché io non abbia strappato tutto, e, fattolo in mille pezzi, non abbia nascosto tutto sotto la veste, per poi gettarlo nel fuoco della cucina alla prima occasione, Eccellenza, proprio non saprei dirlo: o forse non voglio affermare che ancora, in quel momento, il Maligno, operasse in qualche maniera attraverso di me.
Questo è ciò che è accaduto Eccellenza, ed io fedelmente e rispettosamente ve l’ho riportato.
Del misero lamento che ho vergato alla fine di quei maligni scarabocchi, segno, seppur debole e meschino, della mia sofferenza e della invana mia lotta contro il demonio, serbate ricordo nelle vostre preghiere per me, affinché l’Altissimo, nella sua infinita Misericordia, ne possa voler tenere conto nel giorno di mia fine.
La Vostra sorella in Cristo
Suor Maria Crocifissa della Concezione                 

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