domenica 30 giugno 2019

VENTIDUE di Massimiliano Piccolo

Per me è soltanto ventidue. Non so il suo nome e, detto francamente, non so se riuscirò mai a conoscerlo.
Sarà colpa della vita cittadina, dove si dice che nessuno conosca più nessuno. O magari per il fatto che io sia tra le persone più introverse che abitino questo angusto angolo di terra.

Vivo in città ma esco di rado. Non usufruisco delle numerose risorse culturali, artistiche, sportive e sociali che mette a disposizione la metropoli. A me non importa molto, visto che cerco di stare a casa più tempo possibile. Non perché sia un Hikikomori o perché sia avvezzo all'uso di antidepressivi; la realtà è che sono innamorato, in maniera quasi folle, di una ragazza senza nome che vive proprio di fianco al mio piccolissimo appartamento.

Non sto parlando di una ragazza qualsiasi, ma di ventidue, come il numero che compare sul suo citofono e che rappresenta uno dei pochi dettagli che conosco di lei e della sua vita.
Ventidue vive sola, proprio come me. E' spesso in casa e questa, per me, è una grandissima fortuna. Mi capita di sentirla mentre suona la chitarra e canta con una voce che quasi sfiora la perfezione. Non appena avverto che poggia le dita sulle corde della chitarra, soltanto per accordarla, punto l'orecchio al muro e poi chiudo gli occhi. In quel preciso istante, immagino di essere lì, proprio di fianco a lei, ad osservarla con gli occhi spalancati e le orecchie piene di sollievo.

Ogni tanto mi capita di incrociarla mentre si arrampica su per le scale con una busta dell'Esselunga, con addosso quei vestiti neri, la frangetta scura quasi fino agli occhi, perfetta, ed i capelli lisci fino alle spalle, e tento di non scostare lo sguardo. Provo a non abbassarlo o a spostarlo fuori dalla sua traiettoria visiva, ma ogni volta fallisco e i miei occhi fuggono lontani, contro la striscia di muffa del vecchio muro  che ci sfiora, contro una fioriera di pelargoni che riappare, puntualissima, ogni primavera, o addirittura contro il nido di rondini, ormai disabitato da anni, che avvolge un angolo del sottotetto.
Certo non è sempre così; una volta sono anche riuscito a sorriderle, e quella volta lei ha ricambiato, salutandomi con quel ciao che ha risuonato in modo meraviglioso fra quelle ripide rampe scale tutte in cemento. Quella volta ero riuscito a guardarla negli occhi, per qualche istante, ma soprattutto ero riuscito a ricevere il suo primo sguardo. Credo sia stato proprio in quel momento che ventidue ha scoperto la mia esistenza.
Così sono rientrato a casa e mi sono stappato una birra per festeggiare il grandissimo evento. Ho brindato a lei, mettendomi vicino a quella parete sottile che ci divideva, sorseggiando e rimanendo soltanto ad ascoltarla.

Mi capita di tornare a casa, dopo ogni eterna giornata di lavoro, e di rimanere fermo, anche per ore, in cerca dei suoi movimenti. Provo ad ascoltarli, ad immaginare cosa stia facendo, e come stia passando il tempo in quel monolocale esattamente speculare al mio.
Così la sento mentre prepara qualcosa di rapido da mangiare e inizia a spadellare con una certa irruenza, o quando si lava i capelli e poi aziona il phon, quando ascolta la musica e persino quando va a letto; non per altro, ma le molle del suo letto fanno un rumore metallico che potrebbe richiamare l'intero quartiere.
Mi fermo a captare ogni suono e tento di dargli un nome, un motivo, un colore e ad immaginarne tutta la sua essenza, del momento e di lei, che si muove in quella piccola stanza proprio di fianco alla mia, inconsapevole della mia presenza e del mio affinatissimo ascolto.

Poi, tra i vari momenti della giornata, arriva il momento più atteso: quando comincia a provare con la chitarra e ad emettere vocalizzi con la bellissima voce che possiede. Ed è in quel preciso istante che il corpo diventa un solo immenso orecchio e smetto di fare qualsiasi altra cosa io stia facendo.
Da quel momento in avanti infatti non riesco più a fare altro, nemmeno a far finta. Mi metto in religioso silenzio di fianco alla parete e ascolto tutto quello che lei riesce a trasmettermi. E' in quell'istante che non esiste più alcun muro che possa dividerci e  riusciamo ad essere nel medesimo appartamento, sotto lo stesso vecchio tetto.

Quando termina le prove casalinghe, io mi avvicino allo stereo e faccio partire “Heroes” di Bowie a tutto volume. Per me è una specie di rituale, una sorta di ringraziamento per le emozioni che ogni volta riesce a far filtrare oltre quel muro di cartongesso che è sempre troppo spesso. Possano essere una, due, tre oppure quattro volte. Mi metto a cantare pure io, come se fossi uno dei due eroi della canzone, separati da quel muro tanto più lungo e robusto del nostro.

Una volta mi è anche capitato di sentirla canticchiare sopra la nostra canzone. Abbiamo fatto una sorta di duetto inconsapevole, separati soltanto da quella umida parete di una vecchia casa in corte. Io ho continuato a cantare mentre lei si è limitata al ritornello.
E' stato in quel momento che ho capito di possedere una sottilissima speranza. Forse la prossima volta che la rivedrò lei si fermerà in mezzo alle scale, e magari canticchierà la nostra canzone per farmi capire che lei ha capito tutto, o probabilmente mi fisserà per qualche istante, lasciando la busta dell'Esselunga accasciarsi sul gradino e poi mi abbraccerà, prima di darmi quel bacio che stavamo aspettando da troppo tempo.


O forse non accadrà niente di tutto questo, ed io continuerò a corteggiarla, inchiodato a quel finto muro che ci divide, e a sfuggire con lo sguardo ogni volta che la incontrerò, consapevole che quel benedetto giorno, quello della canzone, per me e per noi,  potrebbe non arrivare mai.

Nessun commento:

Posta un commento