venerdì 31 gennaio 2020

DIAFORESI di Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco


Il bisogno di svuotare vescica e intestino mi fa aprire gli occhi ancora prima della sveglia. L’aria della stanza sa di chiuso, di sebo rancido, di corpo stagionato e sudato. È il mio odore. Minchia, ma in fondo non è tanto diverso da quello che sento nelle mattinate fredde d’inverno, quando entro nelle camerate assonnate sature del calore diffuso dai termosifoni del reparto. Forse, qui manca l’olezzo delle flatulenze effuse, durante la notte, da organismi malati.
Prima di uscire da sotto le coperte, al buio, con le dita cerco sul comodino gli occhiali. Faccio attenzione a non rovesciare niente, prima però, stacco la sveglia: non sopporto quel trillo metallico. Sento schiena e collo legati e bagnati. Con un piccolo sforzo esco dal letto, gli stimoli fisiologici sono sempre più impellenti. Rimango seduto sul bordo, mi stiro e cerco di abituare la vista alla luce flebile del mattino che morbida filtra dagli spazi fra le veneziane. Mi è rimasta la sensazione piacevole del sogno che non ricordo. Accendo la luce sopra il letto. Mi guardo i piedi, sono bitorzoluti, la pelle grinzosa è piena di vene aride, sembrano quelli di uno dei tanti vecchi che accudisco. Ho la bocca impastata per il troppo bere e mangiare di ieri sera. Entro in bagno evitando di guardare i segni degli anni e degli stravizi riflessi nello specchio.
Mi siedo sulla tavoletta e libero il mio corpo. Vedo all’angolo della finestra un ragno piccolo:
– Mi guardi mentre sto sul cesso?
Quanti anni avrà? Pensavo campassero poco poi ho letto che possono vivere anni. Vita da ragno: sempre a tessere. Che noia!
– Vai via? Sto facendo troppo puzzo, oppure ti sei offeso?
Gli animali non conoscono la noia, vivono il tempo. Io invece è da parecchio che non vado più a tempo. Quando avevo vent’anni sognavo di mettere su famiglia, cominciai a lavorare duro: turni in reparto e quando ero libero, privatamente facevo notti.
Io e Agnese mettemmo su casa.
Dopo io, Agnese e il primo figlio, a cui seguì la prima figlia e dopo arrivò la seconda. Eravamo felici con tre marmocchi da crescere, un mutuo da finire pagare e qualche acciacco dei genitori.
Poi ho realizzato il sogno della casa al mare per le ferie, per il tempo libero, per quando saremo stati in pensione. Perdevo i capelli e la vista, ma non la forza.
Un giorno ci fu un clic, qualcosa nell’ingranaggio s’inceppò. Mia madre a sessantacinque anni, una protesi al ginocchio destro e diversi denti finti, decise di lasciare mio padre:
– ho bisogno di vivere la mia vita di donna. Prima sono stata moglie, poi madre e ora nonna. Ma io sono altro.
Andò a vivere con una sua amica e iniziò una nuova vita fatta di cinema, teatro e vita sociale.
Mio padre cominciò ad intensificare la sua presenza al bar, consolidò amicizie inerenti il tifo calcistico e si lanciò in sortite goliardiche in cerca di prostitute, un’attività, come mi confessò, che già esercitava quando ancora la famiglia era unita. Mi disse anche:
– Tua madre lo sapeva ed era pure contenta di non assolvere ai doveri coniugali. Che puttana!
E così il mio modello di vita si polverizzò in pochi mesi. Avevo sognato di fare una famiglia autentica e felice come loro, adesso scoprivo che il loro rapporto era basato sull’ipocrisia delle apparenze.
Non fui forte abbastanza e finii inglobato dalla depressione. Vivevo congelato in attesa che qualcosa accadesse.
Infatti, prima o poi, le cose accadono.
Agnese stremata dal mio stato e con tre figli da accudire mi lasciò. Non solo per il troppo carico di lavoro, ma principalmente perché da qualche anno aveva intrecciato una relazione, all’inizio solo platonica (ci tenne a sottolineare), con un suo collega con cui aveva delle affinità elettive, non ho mai capito bene cosa intendesse.
– I figli li porto con me, non sei in grado di gestirli. Reagisci! Hanno bisogno anche di un padre.
Ho reagito. Un mio collega caro mi ha iniziato ai riti raffinati della cocaina, così smorzo gli effetti degli antidepressivi e divento performante. Ho ripreso a lavorare senza sosta per mantenere i figli, per comprare la cocaina, per pagare le bollette.
Guardo l’orologio impolverato sopra il lavandino: è l’ora di togliere la patina appiccicosa del sudore notturno e prepararsi alla giornata. Mi alzo dalla tavoletta.
Adesso sogno di cambiare vita e sudare meno. Ho anche un desiderio di riserva: morire per essere libero.
La luce del mattino illumina il ragno intento a impacchettare un insetto finito nella tela.

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