sabato 30 maggio 2020

AMALIA di Katia Dal Monte


Amalia non conosce neppure la sua data di nascita.
Ma sa che è nata nella stagione delle ciliegie e che fin da piccolissima ha vissuto con i nonni in quel quartiere di Lisbona pieno di gente come loro. Gente povera, come la sua famiglia, come i suoi nonni.
In casa vivono in dieci in due stanze, i suoi genitori li vede di rado, impegnati anche loro ad affrontare ogni giorno la miseria.
Amalia si alza presto in quelle mattine d’inverno, fa quasi buio ancora, va al mercato della frutta, compra due ceste di arance e poi va al porto, dove sbarcano gli stranieri e dove lei cerca di vendere le arance.
Appena arriva le ripulisce con cura con uno straccetto di cotone che si porta sempre in tasca e le dispone in ordine sul piccolo banco. Cerca di vendere anche piccoli pezzi di azulejos, di nessun conto e valore, che ha trovato per strada o nei cantieri vicino alla terrazza di Santa Lucia, dove ogni tanto va di nascosto vagando per la città, e dove le piace tanto fermarsi e guardare il Tago e il mare e il monastero in lontananza, tutta la città ai suoi piedi e il sole alto che infuoca le pietre.
Al porto di mattina cerca sempre la posizione migliore, ben in vista per chi arriva dal molo grande, dove il Tago è già quasi oceano; siccome è piccolina sale in piedi su una vecchia sedia e per attirare qualche compratore canta le canzoni del mare.
Tutti i giorni si chiede perché deve uscire così presto dal suo letto caldo ma ugualmente si infila veloce i calzini e gli zoccoli, mentre la nonna armeggia con qualche pentola e non la guarda neppure quando lei varca la soglia accompagnata dall’odore acre della casa. Si copre come può con una vecchia giacca della zia, per lei è troppo grande ma se la può arrotolare sui fianchi e così il tessuto si doppia sulla pancia magra, dove sente più freddo.   Ha quindici anni, ed è così minuta e gracile che tutti la prendono per una bimba e questo almeno la favorisce nella vendita delle arance. Anche gli uomini più rudi si impietosiscono, comprano le arance e non la molestano. Le mattine d’inverno trascorrono tutte così, nella speranza di racimolare qualche soldo che poi darà alla nonna per comprare un po’ di farina e di uova.
Tornando, spesso canta per strada, piano perché non vuole farsi sentire, ma la sua voce è così penetrante e struggente che qualcuno comunque si gira e sorride.
Questo vuole fare Amalia, cantare, cantare per la gente come lei, per vincere anche la loro malinconia.
Coltiva questo sogno segreto e non lo racconta a nessuno, neanche alla nonna, arrossisce al pensiero di questa sua ambizione, pensa alle mura sudicie della sua casa, alla pentola dove spesso si cuociono solo patate, alle coperte piene di buchi.  Non sa come potrà andarsene da lì  ma sa che prima o poi succederà.
Tutti i giorni Amalia pensa alla morte. Guarda la gente per strada e pensa che di lì a qualche anno nessuno di loro ci sarà più.
Solo il mare la consola, il mare  eterno e infinito, il mare su cui lo sguardo corre senza trovare ostacoli. E un po’ anche la consola cantare, quel canto triste che sembra attraversarla e servirsi di lei per farsi ascoltare.
Quando il sole sorge Amalia si specchia nel vetro della finestra, intravede la pelle troppo bianca, gli occhi scuri e lucenti. Pettina i lunghi capelli mentre lo scialle nero che l’avvolge si muove piano per il leggero ondeggiare dei fianchi al ritmo del suo canto.
Amalia canta le canzoni che ascolta per strada, inventa storie e le canta, canta le parole della sua gente, canta a voce spiegata per chi si ferma ad ascoltarla nel vicolo. La sua voce è una ferita esposta alla notte, è la fatica che si rapprende sui muri scrostati, è la malinconia della sua terra estrema, gettata nell’oceano come una nave abbandonata.

Vent’anni dopo, una sera, in un teatro di Parigi, tanta gente l’aspetta per applaudirla di nuovo.
Amalia pensa ancora alla morte e canta la nostalgia per la sua terra lontana, per il mare che vede di rado.
E’ stanca, ma in tanti l’aspettano, le luci della sala non vincono il buio dentro di lei ma la scaldano e le danno forza.
Prima di cominciare a cantare Amalia annusa il suo scialle, risente l’odore dell’Alcantara e rivede nelle sue mani di adolescente le poche monete che qualcuno le porge per averne in cambio una canzone.
Sente sotto le dita le corde fredde della sua chitarra e si stringe nello scialle, nero come la notte che l’avvolge. 




Amalia de Piedade Rebordao Rodrigues nasce a Lisbona il 23 luglio 1920, ma festeggerà sempre il  compleanno il 1 luglio. Allevata dai nonni materni, frequenta solo tre anni di scuola elementare cominciando ancora bambina a lavorare. A 19 anni viene ascoltata dal proprietario di un famoso locale e da lì inizia una sfolgorante carriera che la porta a cantare nei più importanti teatri del mondo, dove è riconosciuta universalmente come la regina del Fado. Muore a Lisbona il 6 ottobre 1999.




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