sabato 30 maggio 2020

CETUS CUPIDITATE di Sabrina Carollo


Chiamatemi Isa. Ma solo se è strettamente necessario: altrimenti, preferirei non mi chiamaste affatto. Non ricordo con precisione quanto sia passato dall’ultima volta in cui ho interagito con qualche essere umano. Da tanto, comunque, non sento pronunciare il mio nome da una voce diversa dalla mia, mentre sono intenta a borbottare dopo aver fatto cadere inavvertitamente qualche oggetto o aver lasciato qualcosa troppo a lungo sul fuoco.
Non sono però una monaca di clausura, o qualche altro tipo di figura ieratica in odore di santità. Se proprio dovete, pensate a me come a una capra selvatica, abbandonata dal gregge troppo a lungo per avvertirne persino il bisogno. Sul dirupo roccioso di questa piccola isola mi arrampico ormai lentamente, smuovendo la ghiaia candida ad ogni passo e guardando dietro di me le schegge di roccia scintillante singhiozzare giù per il pendio ripido, fino a tuffarsi nel blu assoluto del mare. Precipitano e sobbalzano come in una danza inconsapevole. Come la vita.
Mi servono poche cose: la luce bianchissima che acceca e circonda ogni cosa, il calore del sole d’inverno, l’ombra fresca degli arbusti d’estate, un po’ di cibo che mi viene lasciato dagli uomini, quello che mi viene donato dalla terra asciutta. Mi fanno compagnia la voce di miliardi di stelle, la notte; i sussurri delle navi che passano distanti, trasportando quei gomitoli di desideri chiamati uomini, di giorno.
Mi sono rifugiata qui per dimenticare, eppure tutto quello che mi resta da fare è ricordare. A volte nella vita capita di assistere a uno spettacolo straordinario, che si fissa nella memoria, di più, nel corpo, al punto che anche a distanza di anni, di decenni, continui a percepirne la forza vibrante sulla pelle, attraverso il pulsare del sangue nelle vene, nell’attorcigliarsi delle viscere. Quando la vidi, la prima volta, ne avevo già sentito parlare a lungo, e un’aura di mistero e di magia accompagnava il suo nome, come se si trattasse di un personaggio sovrannaturale, dotato di poteri ultraterreni, capace di gesta straordinarie. Mi colpirono subito la sua conformazione sottile, le ossa leggere e appuntite, da uccello migratore; e quegli occhi indagatori che parevano succhiare la realtà per rubarne l’essenza. Sembrava divorata da una febbre costante, che le rendeva impossibile stare, inquieta, irriverente, distratta da qualcosa di troppo grande. Sfuggente, anaffettiva forse. Pervasa di un magnetismo assoluto, che la rendeva la più desiderata, sempre e comunque, nonostante non fosse la più bella. Si spostava senza preavviso, abbandonando le conversazioni nate per compiacerla, inaspettatamente attratta da un insignificante movimento catturato con l’angolo dell’occhio, per poi richiamare tutti attorno a sé nella stanza con il pretesto di una proposta indecente a cui naturalmente nessuno sapeva dire di no. E quindi scomparire, appena cominciata l’avventura, per ripresentarsi giorni dopo, quando ormai la sete della sua presenza si era fatta arsura. Tutti la amavano e la odiavano. Scivolava tra i nostri corpi, sorvolava le nostre esistenze, inafferrabile, interrogativa, detestabile e intensa. Il suo potere era immenso: lei lo sapeva e se ne approfittava. Non era solo il suo essere sfuggente: c’era qualcosa in lei che la rendeva indispensabile a tutti. Anche a me: provavo un desiderio disperato di decifrarla, di vincere il premio, di arrivare per prima a conquistare le meravigliose perle di luce che racchiudeva dentro di sé. Rappresentava la ricompensa di una guerriglia che coinvolgeva tutti, senza regole, senza prigionieri, senza pietà.
Ciascuno usava tutte le armi a propria disposizione per conquistare un frammento della sua attenzione, un lembo di vita, una santa reliquia da trattenere come una lucciola sotto il bicchiere, per illuminare la notte della nostra esistenza. Ho un ricordo confuso di quei giorni (mesi? anni?) in cui al suo cospetto ci affannavamo per compiacerla, come magi in adorazione, come una ciotola di ciliegie nelle sue mani. Chi sa se fosse davvero consapevole di quanto enorme fosse il suo potere? Se seguisse alla lettera una formula precisa con l’intento di tenerci soggiogati, o se invece usasse le proprie ali colorate per attrarre e succhiare il nettare da ciascuno in modo febbrile, animale, guidata dalla necessità più che dall’intelletto. Quello che so è che rimasi felicemente preda, come tutti, fino a un preciso momento.
È difficile definire l’attimo esatto in cui prendiamo coscienza di qualcosa. Solitamente ci guardiamo indietro e risaliamo la corrente dei ricordi con fatica, tra le rocce e l’acqua gelida, per ricomporre il percorso e tornare all’origine, all’istante in cui tutto è cominciato, ma rimaniamo in una pozza di approssimazione, un tempo arrotondato dalle impressioni, sfumato negli angoli. In questo caso è differente: so dire perfettamente quando avvenne, quando cominciò il cammino che mi portò a svegliarmi dall’incantamento e a vederla per quello che era. Una piccola anima triste.
È nel nostro bisogno più profondo trovare qualcuno di cui fidarci, magari una madre o un padre che ancora ci dica cosa fare e dove andare. Per questo forse guardavamo a lei con tale appetito. Ma lei non aveva la soluzione. Non aveva risposte per nessuno, nemmeno per se stessa. La sua era la nostra stessa ricerca famelica.
M. apparve una nitida mattina di luglio, come materializzato da un’altra dimensione. Non era semplicemente un uomo bellissimo - la barba curata, lo sguardo intenso, il portamento di una statua greca -; era una foresta, una galassia, una sinfonia. Conteneva moltitudini e allo stesso tempo trasmetteva potenza, serenità, solidità, compostezza. Ovviamente, in un batter di ciglia eravamo tutte innamorate di lui. Anche lei - per quanto potesse essere capace di amare. Mi accorsi velocemente dei suoi tentativi di attrarlo nella sua rete, forzando quegli atteggiamenti che le erano sempre stati naturali. I gesti che avevano fatto di lei il centro della nostra attenzione, con lui parevano perdere di energia e significato, riducendosi ai movimenti di una bambina capricciosa. Un attimo prima era una regina; quello dopo, una patetica figurina che agitava le braccia per cercare di rimanere a galla nelle sabbie mobili. Disperata, aveva bisogno di lui per rilucere e più la sua necessità si faceva evidente, più il suo fascino impermeabile a tutto scivolava via. Aveva bisogno di possederlo: ma come fai ad afferrare un volo di gabbiani? Come puoi pensare di conquistare l’oceano? Come contieni l’azzurro intenso del cielo? Il suo bisogno di averlo tra le mani, di metterlo in cassaforte, di etichettarlo come un suo possedimento le toglievano vigore, smalto: e proprio per questo si ostinava a ricercarlo, a volerlo soggiogare. Insistente, lei che era stata tanto sfuggente; accanita, aveva perso tutta la leggerezza che ne faceva la nostra libellula preferita.
Come un castello di carte, la sua freschezza era stata soffiata via rivelando la ruggine, i parassiti, l’inconsistenza del piedistallo su cui era montata. Poco per volta tutti si accorsero dell’inganno a cui noi stessi avevamo voluto credere. La guardavamo affondare, piano piano, trascinata dal suo bisogno di afferrare la luce di un altro, dalla sua fame gigantesca, da una necessità travolgente di dominare lui, e noi attraverso lui. O forse solo se stessa. Chi sa cosa si nasconde davvero dietro l’urgenza titanica che la consumava. Probabilmente il solito buco, il pozzo profondo che atterrisce e attrae tutti quanti.
Almeno questo ho imparato, da lei e dalla sua triste vicenda: che procediamo tutti tra dolore e bellezza, uniti da una comune domanda.
Possiamo cercare di ignorarla, o di dare soluzioni fallaci, fatte di cose, di sesso, di studio matto e disperatissimo. Di apparenza e di specchi ingannatori. Se non la affrontiamo, allora, non aspettiamoci altro che di affondare, trascinati sotto le onde. Non certo dal nostro insaziabile bisogno di grande, quanto piuttosto dalle nostre piccole armi spuntate.

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