mercoledì 30 dicembre 2020

LETTERA DAL CASTELLO di Roberta Sandrini

Riveritissimo Signore,

le voci insistenti e calunniose che corrono ormai per ogni dove e vi raggiungono da ogni parte, rendendovi ormai, ne sono certo, dubbioso circa la mia fedeltà e deferenza nei vostri confronti, mi obbligano ad impugnare la penna ed affrontare queste righe, con grande difficoltà, lo immaginerete, conoscendomi Voi abbastanza bene da sapere quanto io rimanga restio a dare spiegazioni sui più intimi motivi delle mie condotte e ad illuminare la mia anima, sebbene a vostro uso e vantaggio.

Il fatto che io abbia deciso di rimanere confinato entro le mura del castello e di uscire spesso se non solo all’imbrunire e durante le notti, quando non temo di incontrare nessuno, non ha innanzitutto, e mi preme dirvelo prima di ogni altra cosa, influenza alcuna sul buon andamento degli affari del castello e dei suoi dintorni: le ultime annate sono state buone ed hanno assicurato scorte sufficienti a dare un congruo pegno ai tributi che vi sono dovuti.

Uomini onorati fra i miei contadini, della cui fedeltà non ho motivo né pretesto per dubitare, mi fanno pervenire resoconti dettagliati sull’andamento delle faccende dei dintorni, e state pur certo che il minimo movimento che potesse far sospettare un pericolo per i vostri interessi sarebbe prontamente stroncato e rivolto in morte e silenzio.

Nessuna terra davvero può essere considerata più sicura e devota alla vostra persona di quella che avete deciso di affidare a questo vostro umile servo: e, se sono moderatamente esperto delle cose del mondo come forse presuntuosamente mi ritengo, sono certo che i messaggeri che avrete inviato in questi giorni in queste terre, per essere i vostri occhi ed osservare ciò che accade, e la vostra lingua per porre le opportune domande e verificare ciò che vi viene riportato, non potranno che confermare oltre ogni dubbio quanto vi ho appena detto. 

Mi piace credere che abbiate considerato per ciò che sono, ossia favole spaventose frutto dell’immaginario di villici ignoranti, che mai hanno avuto modo di attingere, nel loro miserabile modo di vivere, alla scienza ed al raziocinio, le dicerie su una mia sete di sangue che mi avrebbe resa odiosa la luce del sole, costringendomi ad uscire di notte ed abbandonarmi a pratiche oscene per placarla.

Se così non fosse peraltro, mi è certo che avreste già trovato modo e tempo per liberarvi di me e sostituirmi nel vostro servizio e nella cura di queste terre, non potendo ritrovarsi nefandezza alcuna sotto il vostro dominio. 

Quanto vi ho appena illustrato basterebbe forse a chiudere la questione ed a non molestarvi più con discorsi già divenuti inutili prima ancora di iniziare: ma la mia devozione nei vostri confronti mi obbliga a dilungarmi, per fugare definitivamente in voi ogni possibile dubbio sulla mia persona e la mia condotta, e riavviarci, ciascuno di noi, alla nostra vita ed alle nostre occupazioni consuete, con animo definitivamente rasserenato, alla fine di questo parlare.

E’ inutile che vi rammenti la pestilenza dell’anno passato, che ci obbligò a rifugiarci tutti ciascuno nel proprio possedimento o casolare, uscendo solo per le questioni più urgenti, questioni che, per quanto mi riguardava, consistevano in giri dei possedimenti, onde verificare che i lavori agricoli e di manutenzione fossero comunque portati avanti, e che le tasse fossero versate.   

In quel periodo licenziai i domestici, tranne i due che ho ormai al mio servizio da anni e che principalmente rassettano il mio appartamento e mi preparano qualcosa da mangiare, aprendo all’alba e chiudendo all’imbrunire col loro aiuto le porte del castello.

In quei giri per le campagne che la pestilenza e la stagione rendevano praticamente deserte ebbi modo e facoltà di apprezzare il particolare e carezzevole silenzio, che mi dava modo di apprezzare la natura ed affinare i miei pensieri, arrivando infine a poter accompagnare ogni mia particolare riflessione con un moto ed un suono del mondo svuotato della gente: per cui un ricordo piacevole era un volo od un canto d’uccello, un calcolo eseguito mentalmente sull’importo di un tributo od un’altra valutazione pratica e d’interesse era il sasso scalciato dallo zoccolo del cavallo, o staccatosi dalla melma di una riva, che rotola brontolando nella polvere o nell’acqua, il silenzio assoluto dei pensieri era il fruscio dei rami ai colpi brevi o prolungati del vento.

Tutto cio’ era talmente piacevole che , per quanto il pensiero Vostro non mi sia mai venuto meno neanche un istante, ero consapevole di uscire per le mie occupazioni anche nella più che piacevole attesa di questi esercizi con me stesso.

E non mi mancavano gli uomini e non ne sentivo il bisogno, anche se, qualora entrassi in contatto con loro, la consuetudine della solitudine nella natura mi rendeva, nei loro confronti, più ben disposto o più affabile e cortese, a seconda del loro rango.

Poi iniziai a uscire di notte, a piedi o con un cavallo abituato all’oscurità e perciò non facile al nervosismo né timoroso.

Dove prima si esercitava il pensiero si esercitò l’immaginazione: ovunque la luce della luna ritagliasse ombre e forme, o l’oscurità ingoiasse ogni cosa, lasciando solo macchie viranti sul grigio o sull’inchiostro piu’ nero, mi divertivo ad intravvedere ciò che piu’ desideravo e più mi piaceva, dal piu’ astruso marchingegno, alla piu’ nostalgica presenza, al più mostruoso essere di questo mondo o di un altro, al contorno maggiormente privo di senso, alla più contorta mano che porge o che respinge.

Ripeto, Signore oltremodo caro, tutto questo non derivava, a ben vedere, quando ben lucido interrogavo la mia coscienza, da un’avversione per i fatti del mondo e per coloro che vi abitano, fra i quali ritrovo la vostra magnanima persona.

Ma accortomi che la mia posizione mi concedeva uno spazio di libertà, per poter assecondare la mia natura ed il mio piacere, senza trascurare ciò che Vi è dovuto, decisi di approfittarne per sperimentare un mio personale modo di vivere, che non coinvolgesse del resto altri che me, senza nuocere ad alcuno.   

E così riuscendo a ritagliarmi quello spazio di serenità e contentezza, se non di felicità, che sarebbe parola troppo grossa a pronunciarsi, che tanto spesso è negato anche agli uomini più seri ed assennati.

E così facendo, ritrovo davanti a me quella linea retta, che a percorrerla sicuri e spediti, ci assicura, pur nell’incertezza del giudizio sulla direzione presa, se sia essa quella giusta e sensata alla luce dei precetti morali che ci furono insegnati, almeno la speranza di un arrivo nel porto che abbiamo scelto quando eravamo fra le onde più alte.   

Signore illustrissimo, io spero a questo punto, di essere riuscito ad avere la Vostra comprensione, e di aver sopito ogni vostra inquietudine, al termine di questo lunga lettera, che spero non vi abbia arrecato fastidio piu’ dello stretto necessario, nel proclamarmi, ancora una volta, Vostro servo in ogni Vostro desiderio e bisogno, Vi porgo ossequi sinceri e sentiti, nell’ansia di riaccogliervi presto in questa parte della Vostra terra.

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