mercoledì 30 dicembre 2020

PENSA QUEL TANTO CHE SERVE di Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco

[08.10] Oggi devo rientrare dopo tre mesi di lavoro agile: negozi di cianfrusaglie cinesi riaperti e ponteggi edili ripopolati di voci e corpi massicci. Un operaio dell’est parla incazzato al cellulare, scaraventa mattoni e calcinacci sul camion, sollevando nuvole di polvere.

Il silenzio surreale della fase uno è un rimpianto, adesso rumori di motori, grida becere e clacson coprono garriti e cinguettii dei volatili.

Non voglio fare tardi, sudo, mi manca l’aria e il fiato inumidisce la mascherina: diventerà permeabile?

Semaforo rosso, siamo tanti in attesa del via, fremo. Adesso sulla strada solo una macchina distante. Attraversiamo in tanti, fregandocene che ancora non sia scattato il verde.

Arrivo. Mi metto in fila come in chiesa. Fletto la testa per la temperatura, apro la mano per ricevere il gel.

Era un ambiente ridanciano, ora sembriamo ectoplasmi che transitano nei corridoi per raggiungere le proprie celle. Entro nella mia, apro la finestra, spruzzo tavolo e tastiera di soluzione al cloro, pulisco accuratamente. Qualcuno saluta, chiede come sto. Maura mi dice: ­– Dopo andiamo al bar e mi racconti. – Non so, ti manderò un WhatsApp. – Chiudo l’uscio e calo la maschera, pronta a rialzarla se c’è una riunione online: da mesi non vado dall’estetista e ho finito le creme antirughe e rimpolpanti.

Tiro fuori dalla borsa le ciabatte e tolgo le scarpe, dopo tre mesi non sono più abituata a stare tutto il giorno con i tacchi. Che mani da vecchia: i guanti e il continuo uso di gel mi irritano la pelle.

La giornata lavorativa è a base di briefing online, mail, flow chart, caccia a refusi nelle procedure, call conference e zoom meeting e telefonate.

Ogni venti minuti arieggio la stanza, ogni mezzora faccio il conto di quanto manca per tornare a casa.

A Maura scrivo che non ho tempo, mi rompe sentire i cappottini sulle colleghe e i ragguagli su quanto sono perfetti i suoi figli, anche se non voglio, tutte le volte faccio paragoni con il mio e mi deprimo.

Esco dalla stanza solo per andare in bagno, evito i contatti, in fondo è scritto da tutte le parti che gli ambienti chiusi, anche mantenendo aereazione e distanza di sicurezza, possono essere pericolosi e poi, da tre mesi non vado dal parrucchiere: qualcuna di queste megere noterebbe la ricrescita bianca.

Tra una mail e una videochiamata, disinfetto le mani con il gel e bevo una tisana con liquerizia e finocchio, poi spilluzzico delle verdure crude, in questi mesi ho messo su qualche chilo, alla mia età sarà difficile toglierlo. Nei giorni di lockdown svuotavo il frigo in una mattina, poi mi attaccavo a internet per fare provviste.

[15.10] È arrivata l’ora: esco.

L’aria è calda d’estate, ragazzine smaniose di esporsi, mostrano corpi adrenalinici tatuati e già abbronzati coperti a malapena da abiti un po’ più grandi delle mascherine colorate che coprono il viso. Le osservo per trovare tracce di magagne che diventeranno segni indelebili quando saranno più grandi.

Per respirare e camminare senza fare intricati slalom, dovrei evitare Via Gioberti, ma non voglio.

Dopo la clausura c’è smania di spendere per mangiare, incontrarsi, toccarsi, parlare di cazzate, mettersi in mostra. Tre uomini caciaroni e nerboruti parlano di calcio, occupando tutta la larghezza del marciapiede, hanno braccia muscolose e addome prominente, segno che le palestre sono state chiuse. Amici seduti e distanziati nei dehors, bevono il caffè con i guanti di lattice e la mascherina sotto il mento. Fingono che tutto sia tornato normale, anch’io vorrei essere così.

Entro da Mariannaud per rifornirmi. Poca fila alla COOP, mi faccio coraggio e attendo, tiro fuori il libro dalla borsa, non lo aprivo dalla vacanza a Vienna. La notte, rientrando in albergo, leggevamo poesie. Apro a caso, è la solita. Mi irrita. Chiudo e lo riposo, tanto tra un minuto tocca a me.

[16.50] La gatta mi accoglie festosa, dopo tre mesi si è ritrovata a stare sola. Sono sfinita, andrei a dormire. La vicina anziana con voce acuta e nasale continua una giaculatoria giapponese che dal balcone si espande in tutto il cortile, sembra di ascoltare una solista delle voci bulgare. Accendo la televisione in cucina e opto per fare il cambio degli armadi. Il riflesso allo specchio mostra che mi sto imbolsendo: quante cose che non avrò più occasione di mettere. Dalla TV sento parlare e mi sale l’ansia. La gatta acciambellata sul letto mi guarda e sembra dirmi: ti pare il momento di faticare?

Devo ricordarmi di telefonare per sentire se hanno ricominciato a dare gli appuntamenti per la visita ginecologia e la mammografia.

[19.40] La foto sul cassettone mi pugnala mostrandomi come ero felice a Vienna, com’ero magra. La notte prima di addormentarmi ti chiedevo del nostro futuro, avevo paura al risveglio, di non trovarti più. Rispondevi leggendomi sempre i soliti versi:

Pensa quel tanto che serve,

non un attimo in più,

perché dietro quell’attimo sta in agguato il dubbio.

Sommersa di viscida solitudine guardo il cielo senza una nuvola, ricorda il tempo fermo delle tele di Dalì.

 

 

 

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