Stesa su questo banco di legno stondato, sento mille lievi soffi freddi che si insinuano sotto i vestiti (una maglietta, una giacca a vento non troppo pesante, pantaloni di cotone, il mio abbigliamento da viaggio), e che sembrano venire tutti da una parte sola, salire dal metallo dei binari e dalle pietre color fumo che li dividono.
Provo a serrare le braccia intorno al corpo ma serve a poco.
Si prospetta una notte senza sonno e non so nemmeno che ore sono; alzo a fatica la schiena e la testa per sbirciare l’orologio (incredibilmente un bell’orologio grande tradizionale, di quelli con lancette per le ore ed i minuti, non quei numeri anonimi e squallidi che lampeggiano sotto l’orario dei treni): le tre e venti, sono le tre e venti.
Ci sono delle persone ora nella sala d’attesa.
Un ragazzo di colore con un giubbotto invernale e l’aria stanca, che va su e giu’, molleggiandosi ogni tanto sui ginocchi.
Una
donna seduta su una grossa valigia verde che sembra sul punto di scoppiare e
inondare del suo contenuto tutta la sala d’aspetto: grassa, coi seni enormi
strizzati in una maglietta leggera a fiori, il viso che non sarebbe nemmeno
brutto ma segnato e sciupato, sembra un pezzo di carta piu’ volte
appallottolato e poi stirato su un banco.
Prende
una birra messa accanto alla valigia e beve un sorso; quando non si produce in
questo gesto rivolge frasi a voce alta in una lingua incomprensibile al
ragazzo, che finge di ignorarla.
Un
signore di una certa età, fermo in piedi a fissare con occhi spenti l’orario
dei treni che non scorre più: dal rapido per Roma delle quattro e venticinque
si passa direttamente alle partenze di domattina, dalle sei e cinque in poi.
Ha
un’aria tranquilla e triste, se fosse vestito meglio lo si potrebbe definire
distinto: ma la camicia, benché pulita, dal bianco sta passando al giallognolo,
ed i jeans hanno gli orli logori.Chissà che ci fa qui a quest’ora, chissà se è un senzatetto sotto mentite spoglie o a casa è solo, non riesce a dormire e viene qui a passare il tempo.
Un ragazzo alto ed in carne, coi capelli radi e unti.
Si stende sulle sedie della sala d’aspetto, prova a girarsi e rigirarsi due o tre volte, ha una polo scura a maniche corte e pantaloni estivi, sottili: si stringe anche lui le braccia intorno al corpo, quasi a volersi strizzare, deve aver freddo.
Si rialza, bofonchia qualcosa in napoletano, si ristende: non ha borse né valigie.
Mi
rimetto giù: la luna è bella stasera , tonda e bianchissima, splendente di luce
argentea, sembra farsi avanti come una donna bellissima in mezzo ad una piccola
folla, ed inglobare i fili elettrici che pendono lugubri e neri sui binari.
Non
c’è nessuno che sembri veramente pericoloso in sala d’aspetto ma preferisco
rimanere qui.In realtà non ho voglia di stare vicino a nessuno e magari dover per educazione attaccare conversazione o anche solo rispondere a due o tre domande, giusto per far passare un po’ il tempo.
Mi hanno rubato lo zaino, ho ancora un po’ di soldi in una delle tasche della giacca, quanto basta per comprare un biglietto e tornare a casa non appena aprirà la biglietteria: ma comprensibilmente non ho particolare voglia di socializzare.
Poi un cellulare squilla e tutto cambia.
Con un colpo di fianchi stendo di nuovo la schiena e stavolta mi metto a sedere e mi volto decisa verso la sala d’aspetto.
E’
il cellulare del ragazzo di colore.
Dice
due o tre cose di malavoglia, ascolta, dice in inglese “bye”, riattacca.Chissà perché si è messo proprio quella suoneria, forse lo guardano i suoi figli, forse lo guarda lui qualche volta, di pomeriggio (magari è disoccupato e di pomeriggio rimane a casa), su un canale locale o comunque semisconosciuto, che raggiunge a malapena qualche migliaio di persone.
Lo guarda perché gli piace, perché ha bisogno di imparare l’italiano e cerca di farlo con cose semplici come i cartoni animati.
O forse gli hanno solo fatto sentire la canzone, qualche italiano della sua età, e gli è piaciuta così tanto che l’ha cercata su Internet , se l’è scaricata e la usa come suoneria.
La canzone di un pirata, un pirata tradizionale, di quelli con una benda sull’occhio, che issano una bandiera col teschio, con un pappagallo nero e scheletrico sulla spalla, che ordina di armare i cannoni per l’assalto, ma un pirata che solo per un caso fortuito ha cambiato in astronave il suo veliero.
Che abita un futuro strano, dove si viaggerà in astronave ma esisteranno ancora le cassette per registrare la nostra voce, ed i fiori, e i boschi, e i prati, dove i bambini giocano aspettando di veder spuntare all’orizzonte la sua astronave (nel futuro in cui tutti viaggeranno in astronave temo non esisterà più nulla di tutto questo).
E affascinante, solitario, tenebroso, ma tenero, gentile, audace: come non esserne innamorate a sei anni?
Mi giro verso i binari; una luce verdognola sale timida appena sopra i fili elettrici immobili, non più neri ma di un grigio sicuro e scintillante.
Non sono più lugubri.
Un sibilo attraversa l’aria, seguito da un fruscio di ali: il più mattiniero degli uccelli, che non si vede, nell’aria ancora scura, ma si fa sentire e basta.
Mi rimetto giù e sorrido.
Nessun commento:
Posta un commento