lunedì 17 settembre 2018

L'UOMO DELLA FESTA di Francesco Mancini (con citazioni da Majakovskij, Eisenin, Block)


Già la mattina di ieri inizia strana che mi metto al mignolo un serpentello d'oro coniato dalle comari streghe di casa regalatomi il giorno del mio battesimo, come a dire che di battesimo doveva trattarsi anche quel giorno, guardo negli occhi il serpentello, il serpentello brilla e io ero brillo ancor prima di arrivare al diroccato paese di Pelago già livido di fiamme e mattanze. Scendo di macchina incontro gli amici miei più satireschi e duri e subito sono all'acquisto di vimbianco che scolo all'impronta, dipoi giro contento pel paesin fuggiasco e una ceres e un balletto, poi t'incontro figuri loscoestatici della scuola sua di teatro "Lavorio 69"  cannibali in cerchio con un bottiglione ambiguo di "Sprite" + Vodka + vattelappesca che ci hanno sciolto nel beveron che tracanno in volata, dal che come mi alzo galleggio, vaporoso echeggio, di tutta l'erba il fascio di nervi vagheggio, che come vedo di nuovo gli amici miei satiri scoppio in una risata che tanto crepita furiosa giù a scarico che mi rendo conto che non mi posso fermare, noto proprio che il corpo è partito per conto suo e non si ferma, non si ferma, ridente a dirotto che io posso solo guardarlo perplesso, dipoi a me non resta che seguirlo mentre incede e imbizzarrito impenna, l'antica piazza che caleidoscopia verso di lui convergendo come da un imbuto a martellata sulla mia fronte, che quando  trovo il resto della comitiva seduta a un tavolo -segno del fatto che stava seduta nell'esistenza proprio- sbraito loro che sono morti morti morti e rovescio il tavolo e urlo alla folla intera tutta che sono idioti mentecatti e morti morti morti, rapisco una dietro l'altra birre ai passanti e le scolo -restituendo però il vuoto ai proprietari- rotolo sulle antiche pietre della piazza con quelli che cercavano di trattenermi, pomicio con una che rimarrà per sempre ignota serpeggiando la via nel battere della botta intervallato dal levare di qualche antro blu-scuro di Pelago che mi vede camminar da solo nella mistica scia degli occhi miei sbarrati, finisco poi dormiente su un cassonetto della nettezza urbana misteriosamente intoccato dai cazzotti della gente e dalle forze dell'ordine, prova del fatto che il serpente saturo d'oro e di magia era sparito dal mio dito per salire a spirale di fuoco su per il nero della notte abbacinante. E io con lui.
…....
"se sia il vento, a fischiare nella vuota e deserta campagna, o se l'alcool sconvolga i cervelli come un boschetto a settembre..."
Stamattina.  Vado in bagno, mi guardo allo specchio scorgendo un bianco sudario slavato attaccato a un'implorazione degli occhi.  Ovunque cenere bianca come dopo la fine del mondo. Nel bagno c’è puzza di vomito: ricordo: ho vomitato.  Si? Quanto? Mi viene un sospetto: fondato: nel corridoio c'è una chiazza di vomito.  Barcollando la pulisco alla meglio. Barcollo: mi ributto sul letto. Respiro. E' caldo. E' estate. Tormenti & affini. Il mio cervello è un'eco rallentato bianco, è una donna senz'occhi che canta da lontano. Dormo? Chi? L'odore di vomito mi punge ancora. Mi viene un altro sospetto: fondato: accanto al letto c'è un'altra chiazza di vomito. Puttana Zozza Troia. Non mi muovo, al momento. Ci penserò dopo. Attacco lo stereo e lui mi rimanda rombando il "Majakovskij" di Carmelo Bene.
“Quattro.
Pesanti come un colpo.
A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio
Ma uno come me
dove potrà ficcarsi.
Dove mi si è apprestata una tana?
S'io fossi piccolo
come il Grande Oceano
mi leverei sulla punta di piedi delle onde
con l'alta marea carezzando la luna.
Dove trovare un'amata
uguale a me?
Angusto sarebbe il cielo per contenerla!
Oh s'io fossi povero
come un miliardario!
Giacché cos'è il denaro per l'anima?
Un ladro insaziabile s'annida in essa.
All'orda sfrenata dei miei desideri
non basta l'oro di tutte le californie.”

Lo ascolto tutti i giorni, tanto è bello e in linea con la mia fase di galoppo nero, che sento le steppe ventose a 40 gradi sotto zero dei poeti della rivoluzione russa anche se è estate, sento l'inquietudine dei dannati poeti russi che sembra la mia, che cazzo, ribaltiamo la vita!
Intanto, mi ribalto io.
"...se sia il vento a fischiare nella vuota e deserta campagna o se l'alcool sconvolga i cervelli come un boschetto a settembre..."
L'uomo nero di Eisenin in cilindro lo guarda dalla poltrona.
"La mia testa sventola le orecchie come un uccello le ali... non ha la forza di dondolarsi sul collo.."
Ma io come mi sento? Male? Non esattamente. Sfibrato, si, ma... anche svuotato, depurato, lavato. Devo aver vomitato un bel po' di demoni...
"Hai tu notte, perché tanto scompiglio?"
Cerco di ricordarmi di quello che è successo poche ore prima. La mente si rifiuta subito di tornarci. Ho un sacco di colori dentro, però, un sacco di immagini anacronistiche ma più vere del vero, più colorate del vero, un sacco di risate... terra di miracoli... la piazza, le genti, le bottiglie, questi schizzi d'energia fino alla volta celeste, il casino casino... io al centro, rutilante nel rosso starnazzante come un maiale... rotolante & rotolato.... ma apoteotico, perdio si, catartico...
Bello il casino, liberatorio il casino, significativo senza dubbio, che smuove le mummie che siamo....
Ma forse un vuoto anche. Al mio fianco sinistro. Un Mancato. Una mancata, semmai, lei, la femmina di sempre, che non c'è eppure è così presente: questo il motore vero: il vuoto: Lei: da cui fuggire. Mi volto a destra, nel letto, tappandomi idealmente l'anima.
"Oh fratelli, m'ascoltate, io l'amavo la ragazza, quante notti ci ho passate, notti nere, notti pazze, per il fuoco temerario delle sue pupille gialle, per un neo solitario nel candore delle spalle, mi son perso sangue rosso e salvarmi più non posso..."
Cigola il suono orribile di lei dai secoli dei secoli, dagli atti di un'altra vita (quindi di questa), potrebbe venire dall'infinito passato quest'ombra dalla bocca meravigliosa imperlata di sperma, innominata innominabile irriconoscibile che arriva da peccati antichi (quindi attuali) irriconoscibili innominabili anche loro... una donna che m'ha ucciso, o che ho ucciso io senza volere, come fa Pietro con la sua Kate nella bufera di neve della rivoluzione d'ottobre...
"Amico mio, amico mio, sono molto, molto malato. Non so io stesso d'onde provenga questo male...se sia il vento a fischiare nella vuota e deserta campagna o se l'alcool sconvolga i cervelli come un boschetto a settembre..."
Mi alzo, bevo un ettolitro d'acqua, faccio per rimettermi a letto ma il pensiero del letto fradicio di sudore mi spinge a infilarmi il costume (non da supereroe, quello da bagno), prendere l'asciugamano, dirigermi al laghetto dove coi miei compari svacco i pomeriggi estivi.
Ah, il vomito! Segatura, scopa. Una scimmia mi tambura sul cranio. Salgo sulla moto, arrivo al lago nello stupore generale degli amici.
"Ti reggi in piedi?"
"Insomma."
Lo stupore diventa ghigno e si commemora le gesta del me sderenato. Piu che altro, si racconta al me sderenato quello che ho fatto, che mica mi ricordo bene. E si ride, si celebra, si bofonchia. Che siamo ienette ridens me e i miei compari tutti ventenni carichi di luce solare, ben la condividono con me l'arena e anche le mattanze alcooliche piene di scenari sussultanti. E con me condividono pure il furor di vivere improvviso, istintivo, affettato dal rinculo dei venti della nostra smania, che l'anima nostra viene da un posto comune: le zolle dei campi, il nero delle urla mute dei contadini che avevano irrorato col sangue quelle zolle mute anche loro.
Anche per loro godiamo a oltranza.
E stanotte berrò di nuovo, la bocca spalancata e rossa a urlare insieme a orde di lupi fantasma, di desideri così assoluti, così pieni, così netti.
Bere e bere che l'alcool è un sogno -come la vita- un sogno di fuoco: che i sogni ti fanno male solo se credi che te ne facciano, bere e bere, dai che il tamburo batte, bere e bere perdio si, per sfidare il cadavere del mondo, sempre lì fisso il mondo stempiato col grembiule da osteria, col pallore ridente della puttana tecnica, con il prurito prudente trattenuto conservativo della zia, bere e bere perdio si, ancora la vita ancora violata schivando lo stare attonito e lento, lento, lento delle cose...
"Meglio infatti morire di vodka, che di tedio..."


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