Augusto Pesson lavorava
per la Casa Editrice Leone da 35 anni. Da più della metà non leggeva qualcosa
che fosse degno di una minima attenzione, figuriamoci di apprezzamento. Lo
affliggeva una calvizie senza scampo e una malinconia strisciante, data più
dalla noia ripetitiva di guide turistiche, libretti musicali, manuali di self
coaching, che non da una reale infelicità. Stanco, al limite della letargia, di
questa endemica mancanza di estro, si dedicava quasi interamente a libri sul
cinema, la sua unica passione. Nessuna donna in carne ed ossa né una famiglia a
cui dedicare un pensiero.
Sognava esotismi ed
esistenze da celebrare, poi apriva gli occhi e si trovava davanti la dura
realtà sotto forma di “Storia illustrata della comunità montana”.
Così, in quel lunedì di
febbraio, reagì con indifferenza al plico che giaceva sulla sua scrivania e che
sembrava attenderlo come una sfida. Non provava più lo strano e lieve
formicolio, un tempo sintomo di eccitazione e speranza. Il manoscritto era
arrivato per posta, battuto a macchina e un po' ingiallito, proveniva da Roma,
accompagnato da un biglietto "se volete leggerlo magari vi piace". Pesson
non sapeva se ridere o piangere, l'ennesimo mitomane, sospettava anche
semianalfabeta. Ne aveva pieni i cassetti di simili sprechi di carta.
Il titolo, “Vita di
Calabria”, era talmente datato da sembrare uno scherzo. Rimandò l’incombenza di
leggerlo a più tardi. Poi la giornata passò tra molti altri impegni e se ne dimenticò.
Lo rivide la sera e decise che se lo sarebbe portato a casa, al limite sarebbe
servito utilmente come zeppa per il tavolo claudicante dello studio.
Fu solo perché non c’era
niente in tv e non aveva un attacco di ipocondria su cui concentrarsi, che
lesse le 200 pagine del manoscritto. E lesse come in trance. Non credeva
davvero che il miracolo si fosse ripetuto. Ma si trovò a piangere di gioia: aveva
in mano un capolavoro. La sensazione dolce ed esaltante della scoperta che era
tornata a farsi viva, proprio adesso che aveva 60 anni.
Corse a prendere la busta
e cercò avidamente gli indizi del mittente. Andrea L. Nessun indirizzo, nessun
contatto email, nessun cellulare. Solo un numero con prefisso 0982. Non era di
Roma, ma il plico veniva da lì. Era un prefisso del sud. Guardò l’orologio, era
quasi mezzanotte, non poteva più chiamare, doveva rimandare al mattino
seguente. Ovviamente non dormì. All’alba si mise a contare i minuti e poi anche
i secondi, tra un caffè e una brioche. Alle 7.30 non resse più e compose il
numero.
“Pronto, chi parla?”
“Buongiorno signora, mi
chiamo Augusto Pesson e cerco Andrea”
“E cosa vuole da mio
figlio? Qui abbiamo già dato”
“No, signora, lo cerco
per un libro che…”
“Non compriamo nulla. Comunque
Andrea è in montagna, torna a sera. Se vuole lasci il numero che lo richiama
lui”
Ecco. Il primo ostacolo:
una madre sospettosa. Una madre calabrese sospettosa: l’accento aveva sciolto
l’enigma del prefisso.
La giornata fu
interminabile, rientrò in fretta e furia e sedette accanto al telefono. Che
squillò alle dieci.
La conversazione fu
surreale: Andrea L. era terrorizzato che Pesson avesse rivelato qualcosa a sua
madre e solo dopo le rassicurazioni di Pesson si tranquillizzò e fu disposto a
parlare. Aveva inviato il manoscritto alla casa editrice Leone perché era
quella dell’unico libro che avevano in casa sua. Si era fatto apposta il
viaggio fino a Roma perché spedirlo da lì era più sicuro, dall’ufficio postale
del suo paese non si sarebbe azzardato, che nel giro di mezz’ora lo avrebbero
saputo tutti. Non voleva che fosse fatto il suo nome, su questo punto fu
tassativo: il manoscritto raccontava una di quelle verità che ti costano gli
affetti, la reputazione e forse anche la vita. Perciò niente, se voleva
pubblicarlo che lo facesse in forma anonima “le do gli estremi del conto su cui
versare i soldi, se ce ne saranno. Non mi chiami più, saprò che è andata se
vedrò i soldi in banca. Non c’è altro da dire”.
Pesson non capiva, non
aveva elementi sufficienti. Ma capiva perfettamente che il libro andava
pubblicato, il mondo doveva conoscerlo e, con un po’ di fortuna, sarebbe stato l’agognato
riscatto della Casa Editrice Leone. Così finalmente avrebbero pagato gli stipendi
arretrati e si sarebbero potuti permettere di rifiutare la pubblicazione di
cose come “Far crescere la stella di Natale anche in agosto è possibile”, “Antichi
rimedi per curare la zampa d’oca” ed altri simili best sellers.
La notte portò
agitazione, ricordi, scavi nel passato remoto di un’editoria di avanguardia,
con personaggi borderline, letture collettive, sogni di gloria e di
rivoluzione.
All’alba aveva pesanti
occhiaie, un principio di febbre e una grande idea. Baciò una delle tante foto
di Ingrid Bergman e scappò in ufficio.
Nella sua mente si
delineò il quadro: “Vita di Calabria rimanda alla grande tradizione del romanzo
esistenziale, dell’impegno e della denuncia, spicca nella palude di romanzetti
autoreferenziali e libri gialli. Il suo autore non può certo essere uno qualunque,
che tra l’altro non vuole essere coinvolto. No, l’artista degno di tale romanzo
sarà un certo Andrea Bergman, nato in Inghilterra da madre italiana e padre
tedesco, entrambi artisti e vicini al Movimento 77.
Vita itinerante, al seguito
della stravagante famiglia, mantenuta da un ricchissimo nonno industriale che
lo prende in custodia quando i genitori muoiono in un incidente. Durante una
vacanza in Calabria viene rapito e tenuto sotto sequestro dalla ‘ndrangheta,
per un tempo breve ma che gli lascia ferite indelebili. Andrea non si riprende
più dal trauma, entra nel tunnel della droga e sfoga la sua depressione
maniacale in una creatività malata. Scrive un primo romanzo [inventarsi un
titolo, chiedere a Cinzia del marketing], ma senza successo, nessuno lo
pubblica. Cerca di impegnarsi nel sociale, ma senza costrutto. La droga è più
forte della volontà di una vita normale. Si suicida senza essere mai stato in
grado di rivelare i nomi dei suoi rapitori. Insomma una via di mezzo tra Jim
Morrison, Andrea Pazienza e Aldo Moro”.
Andava limata qua e là,
ma funzionava: un genio sregolato e tragico che invia, come ultimo atto di riconciliazione
con il mondo, la sua storia a un editore del nord.
La sala conferenze della
Casa Editrice Leone brulicava di giornalisti locali, curiosi, qualche hipster,
tutti morbosamente interessati alla presentazione del romanzo “Vita di
Calabria” e soprattutto alla strana storia di Bergman. Pesson aveva preteso
straordinari non pagati dai pubblicitari e dai grafici e aveva dato il via ad
un’operazione di marketing che ammantava di mistero sia il libro che l’autore,
assente alla presentazione in quanto non più tra i vivi.
E ora Pesson, rinato di
nuova giovinezza e abbandonata ogni malinconia, stava davanti a molte persone
che volevano saperne di più su questo strano romanziere e che sicuramente
avrebbero comprato il libro. Si trovava perfettamente a suo agio nel
raccontare, come un affabulatore e prestigiatore di cliché, la storia del
Manoscritto Bergman, entrato per caso in suo possesso.
"Abbiamo ricevuto questo manoscritto ingiallito e senza presentazione, con scritto solo “A. Bergman”.
Lo abbiamo definito “il
manoscritto Bergman”, con grande difficoltà siamo riusciti a ricostruire l’identità
e la storia dell’autore, grazie a un lontano parente che ha chiesto di restare
anonimo.
Andrea Bergman, dopo il
fallimento del tentativo di pubblicare il romanzo “Tritami l'anima" [qui Cinzia
del marketing aveva esagerato, Pesson sentiva ficcante la pugnalata del ridicolo
e dell’imbarazzo], conobbe il fondo della depressione e della crisi
esistenziale più nera. La sua discesa agli inferi ci ha privato di un talento
raro. L'eroina, il buio della mente, la sregolatezza sono stati i suoi unici
compagni di viaggio per anni, nei quali ha fatto perdere le sue tracce. Si è
perso volutamente, ritirandosi a vivere nei boschi lontano da tutto e da tutti.
L'umanità era diventata fonte di un'ansia incontrollata. Non sappiamo se per
colpa dello stato allucinatorio indotto dalle droghe, ma non voleva essere
visto, non tollerava il contatto con gli altri. L’invio del manoscritto è stato
interpretato come una richiesta di aiuto e la volontà di rivelare la verità,
poco prima di compiere il gesto fatale che ha messo fine prematuramente alla
vita di un genio”.
Andrea Bergman, al secolo
Andrea Loculli, era nato ad Acquicella, frazione di Amantea, in provincia di
Cosenza, 300 anime di paese, il 10 ottobre 1980 e si era effettivamente perso
nei boschi: a 12 anni, sulla Sila, con zio Pino che era quasi morto di infarto
e lo aveva cercato fino a sera, chiamando in aiuto tutti i pecorai della zona.
Dopo 7 ore lo avevano ritrovato, infreddolito, spaventato, che si era rifugiato
su un albero per paura dei lupi. Zio Pino dalla gioia aveva ammazzato il maiale
e i festeggiamenti erano durati un mese intero.
Quanto alla droga, Andrea l'aveva solo sentita nominare, era qualcosa di esotico e mitologico di cui parlavano quelli di Cosenza.
Quanto alla droga, Andrea l'aveva solo sentita nominare, era qualcosa di esotico e mitologico di cui parlavano quelli di Cosenza.
L'unico momento in cui
aveva pensato di morire era stato quando, da piccolo, aveva inavvertitamente
messo in bocca uno dei peperoncini verdi, pure quelli di zio Pino, che li
lasciava in giro ovunque perché dovevano seccare: mamma Rita lo aveva ingozzato
di mollica per farlo tornare in sé.
Ora, con i soldi arrivati
da quell’editore del nord, poteva comprare una cucina nuova a sua madre, garantire
una fornitura eterna di gelato di Pepè a sua nonna, che non voleva mangiare
altro, e farsi le passeggiate in montagna con la tenda. Ma soprattutto il mondo
aveva letto quella storia che, lui solo sapeva, era la memoria di suo fratello
Domenico, ammazzato per sbaglio 5 anni prima in uno scontro a fuoco tra due ‘ndrine.
“Ciao Mimmo, l’ho scritto
io il libro, mica un milanese drogato. A te solo posso dirlo, e ti faccio la
lapide nuova di zecca, ma tra un po’, che sennò si insospettiscono dei soldi”.
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