domenica 31 marzo 2019

IL MANOSCRITTO BERGMAN di Giovanna Daddi


Augusto Pesson lavorava per la Casa Editrice Leone da 35 anni. Da più della metà non leggeva qualcosa che fosse degno di una minima attenzione, figuriamoci di apprezzamento. Lo affliggeva una calvizie senza scampo e una malinconia strisciante, data più dalla noia ripetitiva di guide turistiche, libretti musicali, manuali di self coaching, che non da una reale infelicità. Stanco, al limite della letargia, di questa endemica mancanza di estro, si dedicava quasi interamente a libri sul cinema, la sua unica passione. Nessuna donna in carne ed ossa né una famiglia a cui dedicare un pensiero.
Sognava esotismi ed esistenze da celebrare, poi apriva gli occhi e si trovava davanti la dura realtà sotto forma di “Storia illustrata della comunità montana”.
Così, in quel lunedì di febbraio, reagì con indifferenza al plico che giaceva sulla sua scrivania e che sembrava attenderlo come una sfida. Non provava più lo strano e lieve formicolio, un tempo sintomo di eccitazione e speranza. Il manoscritto era arrivato per posta, battuto a macchina e un po' ingiallito, proveniva da Roma, accompagnato da un biglietto "se volete leggerlo magari vi piace". Pesson non sapeva se ridere o piangere, l'ennesimo mitomane, sospettava anche semianalfabeta. Ne aveva pieni i cassetti di simili sprechi di carta.
Il titolo, “Vita di Calabria”, era talmente datato da sembrare uno scherzo. Rimandò l’incombenza di leggerlo a più tardi. Poi la giornata passò tra molti altri impegni e se ne dimenticò. Lo rivide la sera e decise che se lo sarebbe portato a casa, al limite sarebbe servito utilmente come zeppa per il tavolo claudicante dello studio.
Fu solo perché non c’era niente in tv e non aveva un attacco di ipocondria su cui concentrarsi, che lesse le 200 pagine del manoscritto. E lesse come in trance. Non credeva davvero che il miracolo si fosse ripetuto. Ma si trovò a piangere di gioia: aveva in mano un capolavoro. La sensazione dolce ed esaltante della scoperta che era tornata a farsi viva, proprio adesso che aveva 60 anni.
Corse a prendere la busta e cercò avidamente gli indizi del mittente. Andrea L. Nessun indirizzo, nessun contatto email, nessun cellulare. Solo un numero con prefisso 0982. Non era di Roma, ma il plico veniva da lì. Era un prefisso del sud. Guardò l’orologio, era quasi mezzanotte, non poteva più chiamare, doveva rimandare al mattino seguente. Ovviamente non dormì. All’alba si mise a contare i minuti e poi anche i secondi, tra un caffè e una brioche. Alle 7.30 non resse più e compose il numero.
“Pronto, chi parla?”
“Buongiorno signora, mi chiamo Augusto Pesson e cerco Andrea”
“E cosa vuole da mio figlio? Qui abbiamo già dato”
“No, signora, lo cerco per un libro che…”
“Non compriamo nulla. Comunque Andrea è in montagna, torna a sera. Se vuole lasci il numero che lo richiama lui”
Ecco. Il primo ostacolo: una madre sospettosa. Una madre calabrese sospettosa: l’accento aveva sciolto l’enigma del prefisso.

La giornata fu interminabile, rientrò in fretta e furia e sedette accanto al telefono. Che squillò alle dieci.
La conversazione fu surreale: Andrea L. era terrorizzato che Pesson avesse rivelato qualcosa a sua madre e solo dopo le rassicurazioni di Pesson si tranquillizzò e fu disposto a parlare. Aveva inviato il manoscritto alla casa editrice Leone perché era quella dell’unico libro che avevano in casa sua. Si era fatto apposta il viaggio fino a Roma perché spedirlo da lì era più sicuro, dall’ufficio postale del suo paese non si sarebbe azzardato, che nel giro di mezz’ora lo avrebbero saputo tutti. Non voleva che fosse fatto il suo nome, su questo punto fu tassativo: il manoscritto raccontava una di quelle verità che ti costano gli affetti, la reputazione e forse anche la vita. Perciò niente, se voleva pubblicarlo che lo facesse in forma anonima “le do gli estremi del conto su cui versare i soldi, se ce ne saranno. Non mi chiami più, saprò che è andata se vedrò i soldi in banca. Non c’è altro da dire”.
Pesson non capiva, non aveva elementi sufficienti. Ma capiva perfettamente che il libro andava pubblicato, il mondo doveva conoscerlo e, con un po’ di fortuna, sarebbe stato l’agognato riscatto della Casa Editrice Leone. Così finalmente avrebbero pagato gli stipendi arretrati e si sarebbero potuti permettere di rifiutare la pubblicazione di cose come “Far crescere la stella di Natale anche in agosto è possibile”, “Antichi rimedi per curare la zampa d’oca” ed altri simili best sellers.
La notte portò agitazione, ricordi, scavi nel passato remoto di un’editoria di avanguardia, con personaggi borderline, letture collettive, sogni di gloria e di rivoluzione.
All’alba aveva pesanti occhiaie, un principio di febbre e una grande idea. Baciò una delle tante foto di Ingrid Bergman e scappò in ufficio.
Nella sua mente si delineò il quadro: “Vita di Calabria rimanda alla grande tradizione del romanzo esistenziale, dell’impegno e della denuncia, spicca nella palude di romanzetti autoreferenziali e libri gialli. Il suo autore non può certo essere uno qualunque, che tra l’altro non vuole essere coinvolto. No, l’artista degno di tale romanzo sarà un certo Andrea Bergman, nato in Inghilterra da madre italiana e padre tedesco, entrambi artisti e vicini al Movimento 77.
Vita itinerante, al seguito della stravagante famiglia, mantenuta da un ricchissimo nonno industriale che lo prende in custodia quando i genitori muoiono in un incidente. Durante una vacanza in Calabria viene rapito e tenuto sotto sequestro dalla ‘ndrangheta, per un tempo breve ma che gli lascia ferite indelebili. Andrea non si riprende più dal trauma, entra nel tunnel della droga e sfoga la sua depressione maniacale in una creatività malata. Scrive un primo romanzo [inventarsi un titolo, chiedere a Cinzia del marketing], ma senza successo, nessuno lo pubblica. Cerca di impegnarsi nel sociale, ma senza costrutto. La droga è più forte della volontà di una vita normale. Si suicida senza essere mai stato in grado di rivelare i nomi dei suoi rapitori. Insomma una via di mezzo tra Jim Morrison, Andrea Pazienza e Aldo Moro”.
Andava limata qua e là, ma funzionava: un genio sregolato e tragico che invia, come ultimo atto di riconciliazione con il mondo, la sua storia a un editore del nord.

La sala conferenze della Casa Editrice Leone brulicava di giornalisti locali, curiosi, qualche hipster, tutti morbosamente interessati alla presentazione del romanzo “Vita di Calabria” e soprattutto alla strana storia di Bergman. Pesson aveva preteso straordinari non pagati dai pubblicitari e dai grafici e aveva dato il via ad un’operazione di marketing che ammantava di mistero sia il libro che l’autore, assente alla presentazione in quanto non più tra i vivi.
E ora Pesson, rinato di nuova giovinezza e abbandonata ogni malinconia, stava davanti a molte persone che volevano saperne di più su questo strano romanziere e che sicuramente avrebbero comprato il libro. Si trovava perfettamente a suo agio nel raccontare, come un affabulatore e prestigiatore di cliché, la storia del Manoscritto Bergman, entrato per caso in suo possesso.


"Abbiamo ricevuto questo manoscritto ingiallito e senza presentazione, con scritto solo “A. Bergman”.
Lo abbiamo definito “il manoscritto Bergman”, con grande difficoltà siamo riusciti a ricostruire l’identità e la storia dell’autore, grazie a un lontano parente che ha chiesto di restare anonimo.
Andrea Bergman, dopo il fallimento del tentativo di pubblicare il romanzo “Tritami l'anima" [qui Cinzia del marketing aveva esagerato, Pesson sentiva ficcante la pugnalata del ridicolo e dell’imbarazzo], conobbe il fondo della depressione e della crisi esistenziale più nera. La sua discesa agli inferi ci ha privato di un talento raro. L'eroina, il buio della mente, la sregolatezza sono stati i suoi unici compagni di viaggio per anni, nei quali ha fatto perdere le sue tracce. Si è perso volutamente, ritirandosi a vivere nei boschi lontano da tutto e da tutti. L'umanità era diventata fonte di un'ansia incontrollata. Non sappiamo se per colpa dello stato allucinatorio indotto dalle droghe, ma non voleva essere visto, non tollerava il contatto con gli altri. L’invio del manoscritto è stato interpretato come una richiesta di aiuto e la volontà di rivelare la verità, poco prima di compiere il gesto fatale che ha messo fine prematuramente alla vita di un genio”.

Andrea Bergman, al secolo Andrea Loculli, era nato ad Acquicella, frazione di Amantea, in provincia di Cosenza, 300 anime di paese, il 10 ottobre 1980 e si era effettivamente perso nei boschi: a 12 anni, sulla Sila, con zio Pino che era quasi morto di infarto e lo aveva cercato fino a sera, chiamando in aiuto tutti i pecorai della zona. Dopo 7 ore lo avevano ritrovato, infreddolito, spaventato, che si era rifugiato su un albero per paura dei lupi. Zio Pino dalla gioia aveva ammazzato il maiale e i festeggiamenti erano durati un mese intero. 
Quanto alla droga, Andrea l'aveva solo sentita nominare, era qualcosa di esotico e mitologico di cui parlavano quelli di Cosenza.
L'unico momento in cui aveva pensato di morire era stato quando, da piccolo, aveva inavvertitamente messo in bocca uno dei peperoncini verdi, pure quelli di zio Pino, che li lasciava in giro ovunque perché dovevano seccare: mamma Rita lo aveva ingozzato di mollica per farlo tornare in sé. 
Ora, con i soldi arrivati da quell’editore del nord, poteva comprare una cucina nuova a sua madre, garantire una fornitura eterna di gelato di Pepè a sua nonna, che non voleva mangiare altro, e farsi le passeggiate in montagna con la tenda. Ma soprattutto il mondo aveva letto quella storia che, lui solo sapeva, era la memoria di suo fratello Domenico, ammazzato per sbaglio 5 anni prima in uno scontro a fuoco tra due ‘ndrine.
“Ciao Mimmo, l’ho scritto io il libro, mica un milanese drogato. A te solo posso dirlo, e ti faccio la lapide nuova di zecca, ma tra un po’, che sennò si insospettiscono dei soldi”.

Nessun commento:

Posta un commento