Questa è la storia di cinque persone che saranno costrette a viaggiare, o non potranno farlo, nel periodo del Covid 19. Tutte le storie qui raccontate sono tendenzialmente vere, ma probabilmente false, o viceversa; a voi la scelta.
Un capitolo al giorno (tranne il sabato e la domenica).
UNO. PREMESSA. LA MIA QUARANTENA FU QUELLA CHE FU.
Capitolo 1
La scelta
- E allora? Che cosa facciamo?
Qui a Freetown, in Sierra Leone, ci sono zero casi; il morbo non è ancora arrivato, riferiscono le autorità ai mezzi di informazione. Rimanere, invece di rientrare in Europa, nell’occhio del ciclone dell’infezione, sarebbe saggio.
Mi muovo dal balcone alla camera da letto, otto metri scarsi, in mutande, mentre aspetto una risposta.
Il sudore scende dalle tempie, una goccia si intrufola nell’orecchio e forma una bolla. Stacco il telefono, bagnato, raccolgo la maglietta che indossavo in mattinata per asciugarlo.
In casa non c’è un alito di vento e trentacinque gradi.
Osservo il ventilatore, immobile: non c’è corrente. Come ogni giorno la fornitura si ferma, con svizzera precisione, dalle 9 del mattino alle 6 del pomeriggio. Nove ore senza elettricità; devo ricordarmi di non aprire il frigorifero.
- È stato confermato? Chiede Abigail, la mia compagna tedesca.
L’Air France tra due giorni sospenderà i voli Freetown- Parigi; Bruxelles Airlines tra tre giorni.
Abbiamo poca scelta: solo cinque compagnie transitano in Sierra Leone.
- Sì, sì… lo ha scritto qualcuno nella chat. Ha ricevuto comunicazione dalla
compagnia aerea…
Restiamo in silenzio; la sento respirare, sta pensando a una soluzione.
L’organizzazione per la quale Abigail lavora in Sierra Leone non si è espressa. L’associazione locale dove faccio il volontario e colleziono storie di deportati, ex-richiedenti asilo rifiutati e rispediti al mittente, sta per chiudere i battenti.
Abbiamo un’ultima riunione e poi ci rivedremo tra un mese, se tutto va bene.
- D’accordo Loriano… Io adesso ho un meeting, poi un briefing e subito dopo una conference call. La cosa migliore da fare è parlarne quando sono a casa.
Mi sembra ragionevole.
- Alla fine la nostra idea è rimanere, giusto? Le chiedo.
- Guarda non so cosa sia giusto o meno. Al momento il morbo non è ancora arrivato. Ci lanciamo a capofitto verso il disastro? Non so, anche se…
Appunto, anche se.
In Sierra Leone tutto è ancora aperto. La sera è possibile andare al bar, uno dei tanti in riva al mare, e bere una birra, evitando gli assembramenti.
- Allora aspetto che torni e ne parliamo.
- Tanto c’è ancora Royal Air Maroc che prosegue i voli? Chiede conferma lei.
- No, Royal Air Maroc ha sospeso i voli da ieri.
Il sudore non si ferma. Osservo l’orologio; due ore abbondanti da attendere prima di riottenere l’elettricità.
Mi affaccio sul balcone alla ricerca di refrigerio, osservo la laguna sotto di me. Bassa marea, la brezza serale non si è ancora alzata.
Rientro in casa, saluto Abigail e lascio il telefono sul tavolo per qualche istante.
Poi lo afferro e controllo le notizie.
Contagi aumentati, pazienti in condizioni disperate, morti; in Europa la situazione peggiora di ora in ora. Mi sbaglio: di minuto in minuto.
In Cina migliora e la riapertura è vicina; siamo a ridosso della primavera, i fiori torneranno a sbocciare.
Ricevo un messaggio: Turkish Airlines e Kenya Airlines volano ancora su Freetown, ma Air France ha esaurito i biglietti e Bruxelles Airlines ha gli ultimi due posti disponibili.
Nel momento in cui abbiamo deciso di restare, ho capito di dover partire.
Un brivido; dobbiamo abbandonare il paese, ma come?
PREMESSA. LA MIA QUARANTENA FU QUELLA CHE FU
Capitolo 2
La corsa
Alle 9.40 vado a correre sulla spiaggia. Trentaquattro gradi centigradi, novanta per cento di umidità. C’è un gruppo di ragazzi che gioca a calcio.
Sono già pronto a rifiutare il loro invito: non posso rivaleggiare con dei diciottenni, atletici, cresciuti sotto questo sole. Si accorgono di me e si fermano a guardarmi, inquieti, facendosi da parte.
Io sorrido.
Il presidente della Sierra Leone è stato categorico in televisione. Il morbo non sarà il nuovo ebola: il paese è sano; la minaccia viene dall’esterno e bisogna chiudersi a riccio.
L’epidemia è giunta con un aereo, dagli USA, anche se non esistono voli diretti.
Chi cazzo è l’infetto che se lo è potuto permettere?
Il secondo contaminato è il primario di una clinica privata: la dottoressa che ha visitato il primo paziente.
La clinica è stata chiusa a scopo precauzionale.
Uscire dal paese è impossibile; l’aeroporto è stato sigillato per tre mesi, le frontiere via terra sono controllate dall’esercito.
L’unico luogo che continua a rimanere aperto è il porto commerciale.
I giovani calciatori si incupiscono; qualcuno urla: vattene a casa.
Abbasso lo sguardo per evitare lo sciabordare delle onde, vittime dell’alta marea. Correre è difficoltoso.
Alle volte sono costretto a eludere l’acqua all’ultimo secondo. Salto, accelero o rallento. È inevitabile che qualche onda colpisca le scarpe.
Il pallone mi rimbalza vicino, mentre mi guardano tutti. Io prendo la mira e mi esibisco in un tiro sbilenco per farli riprendere a giocare.
Il più piccolino avrà il doppio della mia muscolatura. Con gli occhiali da sole evito di fissarli. Nessuno ha fatto caso al pallone che è rimbalzato tra loro.
Noi abbiamo cibo, ma non è sicuro rimanere qui.
Per la prima volta loro, che vedono qualunque straniero come un bancomat ambulante, non si avvicinano per la questua. Affretto il passo, ma senza darmela a gambe. Oltre al sudore sento un brivido freddo.
Sono i bianchi che portano il morbo. Devo scappare via, non è sicuro uscire da soli.
Pumui! Mi urla uno di loro.
Uomo bianco di merda, persona non grata.
Dobbiamo trovare un modo per scappare.
Capitolo 3
In California – Le onde del destino
La porta del taxi si era chiusa con uno schiocco sordo e lei aveva mormorato un indirizzo. Il profumo di cocco e lavanda si era propagato nell’abitacolo arrivando fino alle narici di Mohamed che, professionale, l’aveva osservata attraverso lo specchietto retrovisore e aveva affondato il piede sull’acceleratore.
Subito dopo la partenza dell’auto la donna aveva sbottonato la camicia di seta, verde acqua, e aveva cominciato ad aggiustarsi il reggiseno color panna.
L’auto procedeva a ritmo di crociera mentre lui la osservava.
- Mi avevano detto che era normale mettersi a proprio agio su un taxi. Aveva scherzato la donna, per nulla imbarazzata, quando si era accorta che Mohamed le fissava le tette.
I genitori di Rowena si erano trasferiti in California quando lei aveva sette anni; aveva raccontato mentre era alle prese con l’aerodinamica del reggiseno.
Arrivati a destinazione il taxi aveva accostato, con il motore acceso. Mohamed sorridente aveva intascato la corsa; Rowena gli aveva sventolato sotto il naso un assegno.
Lui lo aveva afferrato, senza girarsi, e lo aveva roteato tra le mani.
- Devi solo consegnare questa lettera.
Mohamed aveva soppesato il plico, fissandole la scollatura.
Lei aveva maneggiato l’incartamento con lunghi guanti bianchi.
Mohamed aveva osservato il suo nome, inciso come beneficiario, e aveva annuito.
Rowena lo aveva ringraziato, aveva mostrato il tesoro della sua scollatura per l’ultima volta, si era riabbottonata la camicia ed era scesa dal taxi.
Mohamed aveva tre figli, due di loro non li vedeva da nove anni. Una volta all’anno, se era fortunato, mandava loro dei soldi; il più grande, Aboubaka, aveva raggiunto buoni risultati e gli aveva chiesto di poter frequentare il college.
Prima di scendere dalla macchina aveva impugnato il telefono:
- Pam? Preparati; ci prendiamo una vacanza. Ho appena ricevuto cinquemila dollari di mancia.
Senza immischiarsi negli affari altrui avrebbe potuto incassare quell’assegno, inviarne metà ai suoi figli, e godersi un weekend a Las Vegas.
Se non fosse entrato in quella villa, sarebbe rimasto in California, a guidare il taxi e a progettare il futuro.
Invece scese dall’auto e suonò il campanello.
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