Di cose labili appare la terra: di voci e di calde folate.
Bruciano, così giocondi roghi, i colori dei giochi infantili.
(Giorgio Caproni)
Da bambino abitavo in Collinaia, quartiere della periferia sudest di Livorno.
Ve l'ho mai raccontato? Credo proprio di sì.
Quello che tuttavia ancora non sapete è che allo “Stillo”, in quell'appartamento di 70 metri quadrati scarsi, al terzo piano del civico 419 di via di Popogna, abitavamo io, mio padre, mia madre e i miei due fratelli, Stefano e Giulia.
Pur vivendo in uno spazio che sarebbe stato, con tutta probabilità, troppo ridotto e limitato per qualsiasi altra famiglia di cinque persone, devo dire che a noi tre ragazzini lo spazio davvero non mancava.
Altroché se ce n'era!
Sarebbe bastato infatti uscire di casa, scendere i tre piani di scale fino al grande cortile ed uscire poi sulla strada principale, per trovarsi completamente immersi in spazi aperti e sconfinati, quasi del tutto inviolati.
La vivace percezione di trovarsi avvolti e quasi immersi nel verde e la consapevolezza della fortuna di avere intorno a noi una così grande area naturale ancora innocente e pulita si sarebbero potute facilmente avvertire, se ci si fosse ritrovati, ad esempio, sulla sommità della piccola collina prospiciente lo Stillo.
Da quella piccola altura chiamata Monterotondo, infatti, se si fosse imboccata la grande strada alberata di via Collinet, per poi ridiscenderla fino al bivio che portava a quel piccolo quartiere ai margini della città, appariva evidente quanto il grande complesso di palazzi dove abitavamo, con quel suo frizzante colore giallo mandarino, fosse in netto contrasto con le tinteggiature naturali degli ambienti che lo circondavano.
Il verde argento del campo di ulivi, ad esempio, lo costeggiava al suo confine ovest; oltre il Rio Ardenza, poi, verso sud, spiccavano i colori accesi del campo di girasoli e dei vasti frutteti del signor Settimo. Ancor più suggestivo era, infine, lo squarcio sulla fitta boscaglia dai toni rugginosi di verde scuro, ocra e marrone, a formare quel mare di alberi e arbusti che ricoprivano per intero le Colline Livornesi, verso est.
Il colosso di pietra in cui abitavamo era proprio come un vecchio castello dormiente sulla cima di un piccolo poggio, circondato e protetto da aspre colline e dalle gentili, morbide e pianeggianti superfici dei campi coltivati dalle mani dell'uomo.
“Lo Stillo” era per me esattamente questo: l'ultima delle antiche fortezze. L'ultimo avamposto ai confini di un mondo per me ancora sconosciuto.
In quegli anni, in Collinaia, il tempo scorreva lento e tranquillo.
Tutto ciò che ci circondava, in quel luogo così silenzioso e alle soglie del mondo naturale, come i pini, le palme e gli oleandri del giardino condominiale, le colline tutt'intorno a noi, lo stesso muro di cinta dello Stillo, oppure il torrente che si snodava immediatamente oltre, pareva avesse vita propria.
Tutta quella bellezza era per me e i miei fratelli uno spazio perfetto dove poter vivere sereni la nostra fanciullezza.
Naturalmente, niente è più come allora.
Oggi, che è passato molto tempo, anche il ricordo si è fatto polveroso e ingiallito e tutto sarebbe oramai svanito, se non fosse per la voce pietrosa, fioca e sommessa di quel castello che, ogni tanto, torna a raccontarmi una storia delle sue.
Questa qui, che sto per raccontarvi, ebbe inizio in un primo pomeriggio di un giorno del Dicembre 1991. Lo ricordo molto bene perché, di lì a due o tre giorni, sarebbe stato il mio undicesimo compleanno. Era una splendida giornata di sole, luminosa, asciutta.
Ricordo il buon odore della terra ancora bagnata per la pioggia del giorno prima, e che, poco più tardi, nel risalire le scale del “castello” fino al nostro appartamento, lasciai su ognuno di quei gradini di marmo numerose piccole tracce del fango che mi era rimasto attaccato sotto le scarpe.
Quella volta, saranno state all'incirca le tre del pomeriggio, io e Stefano eravamo nei pressi delle vecchie macine di pietra che, da chissà ormai quanti anni, riposavano nel cuore dell'ampio cortile interno. Erano tutto ciò che restava di quello che, probabilmente, era stato lo Stillo prima che diventasse un condomino, cioè un antico frantoio.
Quelle tre macine in granito erano diventate per noi, negli anni, l'ideale luogo di ritrovo, il fulcro della contesa con la fazione rivale (quindi anche la causa di improvvise e feroci battaglie con gli altri ragazzini) e, naturalmente, in quanto punto focale del nostro maniero, il posto ideale dove innalzare la bandiera del castello.
Ciascuna delle fazioni, ovviamente, aveva la propria.
Noi, in effetti, ne avevamo due: quella dell'esercito confederato avrebbe sventolato sulle macine immediatamente dopo una battaglia vittoriosa, mentre quella della Contrada senese della Pantera sarebbe stata issata ogni giorno nei periodi di pace.
Chissà dov'eravamo andati a pescarla quella bandiera!
Comunque, la posizione di quei colossi di pietra era, oltretutto, davvero strategica.
Lì vicino, infatti, c'erano una vecchia fontana, che ci offriva una inesauribile riserva d'acqua, ed una grande pianta di glicine che ricopriva per intero il muro di cinta. I suoi piccoli semi potevano rappresentare la sola fonte di sostentamento e di cibo nel caso di un assedio da parte dell'esercito nemico.
Mentre me ne stavo con mio fratello giù nel cortile, ad un certo punto notai i miei nonni imboccare il vialetto che, dalla strada principale, conduceva al portone del mio palazzo.
Ebbi modo di distinguerli con facilità per via della loro statura ma, soprattutto, a causa della postura che erano soliti assumere nel camminare e che, oramai, conoscevo a memoria.
Sul momento ero troppo concentrato su ciò che stavamo facendo per poterli salutare. Notai tuttavia che, a ostacolare il mio sguardo e quindi a impedirmi di scorgere i loro volti, c'era un grande baule dal colore rosso e dai bordi color ottone che si portavano appresso, caricato sulle spalle di nonno.
“Che fai, Nicola? Non ti distrarre! Dobbiamo finire prima che ci veda qualcuno degli altri!” mi disse mio fratello tirandomi per la maglia.
“Ma sì, sì... continuiamo.”
“A che punto siamo, Stefano? Ah, già! Manca lo stenditoio!”
“Sarà meglio che ci pensi io, - fece lui, facendo roteare la penna tra le dita - tu sei troppo distratto, Nicola!”
Stavamo realizzando una mappa della zona.
Proprio dove ci trovavamo, avevamo infatti l'intenzione di nascondere qualcosa, un vero tesoro che soltanto noi due avremmo saputo ritrovare.
Quella carta, che dal giorno prima stavamo preparando, avrebbe rappresentato l'area dell'intero castello e, ovviamente, la stavamo disegnando con una penna biro rossa e su di un foglio a quadretti strappato dal mio quaderno di matematica, con tanto di legenda che ci avrebbe permesso di localizzare subito qualsiasi luogo ogni qualvolta la avessimo aperta.
Era davvero una bellissima mappa: ampia e molto dettagliata.
Dopo una mezz'ora, marcammo con una grande croce il punto in cui, di lì a poco, avremmo sepolto il nostro tesoro.
“L'hai portato?” gli domandai.
“Certo. - fece lui - Eccolo qui.”
“D'accordo! Scaviamo una buca sufficientemente profonda e, poi, ricopriamo tutto.”
Così facemmo.
Dopo pochi minuti, un oggetto davvero prezioso era ormai coperto da venti centimetri di terra fresca e nessuno, eccetto noi due, avrebbe mai potuto trovarlo.
Quando poco più tardi risalimmo in casa, mi tornò alla mente il baule che avevo visto portare dai miei nonni.
Tentai, allora, di assumere l'atteggiamento di chi fa finta di nulla, ma speravo davvero tanto che quell'oggetto così ingombrante, con cui li avevo visti arrivare e che aveva le sembianze di un antico forziere dei pirati, fosse il regalo per il mio compleanno.
Rammento che, quando entrai nella sala, i miei nonni erano assieme a mia madre che, seduta sulla poltrona proprio sotto alla finestra, parlava con loro.
Detti una rapida occhiata in giro: del baule nessuna traccia.
“Dove mai può venire nascosto un regalo in attesa di essere consegnato? Pensa, Nicola, pensa... la casa non è poi così grande...” mi dicevo.
“Nicola! - esclamò mia nonna, accorgendosi di me - Sei già qui? A quest'ora?”
“Sotto al letto!” risposi io.
“Come sotto al letto?” mi fece allora mio nonno, mettendosi a ridere.
“No... volevo dire... vado a sdraiarmi sul letto, nonno. Mi sento stanco.”
“Sei stanco?” mi domandò, allora.
“Si. Devo aver corso troppo.”
“Se sei stanco adesso che giochi tutto il giorno, figurati quando sarai grande e dovrai lavorare!” fece ancora lui.
Io mi strinsi nelle spalle e mi allontanai portando la mano alla bocca per far credere a tutti che stessi sbadigliando. Un attimo dopo, invece, stavo strisciando sotto al grande letto dei miei, alla ricerca del regalo. Niente, non c'era.
“Dove mai potrà essere?” mi chiedevo.
Cercai quel baule per tutto il resto del pomeriggio e anche il giorno seguente e quello ancora dopo. Niente da fare. Il giorno del mio compleanno ricevetti finalmente quello che credo sia stato il più bel regalo che abbia mai ricevuto. Figuratevi che era sempre stato sopra la mia testa, in cima all'armadio di camera mia. Avrei potuto vederlo, se solo avessi rivolto lo sguardo verso l'alto.
Ricordo che il nonno, nel consegnarmelo e ridendo proprio di gran gusto, canticchiava così:
“Gigi cerca il suo berretto. Dove mai l'avrà ficcato? Nei cantucci, sotto il letto, va a frugar tutto affannato. Urla, salta, pesta: poi s'accorge che l'ha in testa!”
Ridevo anch'io, mentre lui recitava la sua filastrocca.
Comunque, mi fu dato, finalmente, quel regalo bellissimo.
Per il soldatino che ero, difensore e comandante del nostro fortilizio, era proprio bellissimo quel baule di un luminoso rosso fuoco dove poter nascondere tutti i miei tesori e gli oggetti più preziosi!
Tempo dopo, una mattina, io e Stefano decidemmo di nascondere la mappa che, con tanta cura e pazienza, avevamo disegnato. Dopo averne bruciacchiato i bordi con l'accendino di mio padre, per dare alla cosa quel non so che di piratesco, la arrotolammo e la legammo con uno spago azzurro.
Il giovane muratore, che quel giorno stava aprendo un varco in una parete di casa per fare spazio alla cassaforte che vi avrebbe inserito, si prestò volentieri al nostro gioco e quindi, prima di richiudere il buco, mi dette il tempo di infilare quel rotolo così prezioso per noi dentro a quella fessura.
Così, in un attimo, la mappa del tesoro sfuggì dalle mie piccole mani.
Sinceramente, l'entusiasmo, che avevo l'attimo prima di introdurla lì dentro, lasciò subito spazio ad un po' di amarezza.
Ancora oggi, quando ripenso a quella storia, riesco a consolarmi solo immaginando che, forse, un giorno, un altro bambino possa ritrovarla. Se così sarà, spero proprio che saprà stringerla forte e, soprattutto, farne buon uso.
Sarà in grado di trovare quello che io e Stefano seppellimmo quel giorno nei pressi delle macine in granito?
Vi assicuro che, nel punto contrassegnato da una grande croce, un tesoro nascosto c'è davvero! Magari, fra cinquanta o sessant'anni, un ragazzino troverà quella carta ingiallita e bruciacchiata ed esclamerà: “Guarda mamma, la mappa di un tesoro!”
Perché quella volta, tra le mura del mio castello, lasciai qualcosa che difficilmente un bambino, con una sufficiente dose di immaginazione e di fantasia, potrebbe ignorare.
Se è vero poi che la storia si ripete sempre, allora, forse, anche quei territori incontaminati che mi hanno visto piccolo, quei luoghi così tanto puliti, freschi e naturali, quei piccoli grandi spazi e tutti gli elementi che li hanno resi ai miei occhi tanto speciali, torneranno ad esistere, da qualche parte, per un altro bambino.
Ci sarà sempre, spero, un regno magico e incantato con il suo vecchio castello, assieme ad un altro ragazzino pronto ad esplorarlo fino ai suoi confini più estremi.
O, forse, tutto ciò che è stato mai più sarà.
Forse, semplicemente, sono io che mi ostino a rincorrere ancora la dolce ed amara fuggevolezza di quegli anni passati.
E allora, credo proprio che, uno di questi giorni, chiamerò mio fratello e che, assieme a lui, andrò a controllare se quel tesoro c'è ancora.
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