giovedì 27 dicembre 2018

VOODOO DREAMS di Giovanna Daddi


Sara guardava con sospetto e odio la faccia rugosa della vecchia donna, la scrutava dal sedile posteriore, riflessa nello specchietto retrovisore. Il suono delle chiacchiere della vecchia e dell’amica che le sedeva accanto arrivava ovattato dietro, come un tappetto sonoro indistinto, Sara era concentrata solo quegli occhi.
“Ti conosco da quando sei nata tesoro, come puoi credere che sia stata io? Non so neppure perché ne fosse convinta tua madre, forse la malattia le dava alla testa negli ultimi tempi”.
Bugie, Sara sapeva che quella vipera le aveva fatto del male e che la sua natura invidiosa e crudele non si fermava davanti a niente, il suo delirio egoistico di onnipotenza, il desiderio di distruggere ciò che non poteva avere, l’avevano portata a fare cose terribili, sempre nascondendosi dietro quell’aria fragile e minuta. Ora che era vecchia appariva ancora più fragile, ma Sara in quel volto avvizzito vedeva solo un demone voodoo. Un demone nano, ma pur sempre un demone. Alla guida di un’enorme auto beige metallizzata, con gli interni in pelle color crema, morbidi e lisci.
                                               
Le due anziane amiche di sua madre (se amiche si potevano definire) avevano deciso di portarla a fare un giro, di farla uscire di casa per offrirle una colazione in qualche bar chic del centro e farle comprare qualche vestito, come due vecchie zie fintamente innocue. Potevano rammentare le nonnette di “Arsenico e vecchi merletti”, ma senza la stessa simpatia.
La prima tappa fu Scudieri in piazza Duomo. Si sedettero e ordinarono, Sara era impegnata nello sforzo di fingere che tutto fosse normale, ma il desiderio di saltare al collo della vecchia voodoo era più forte di lei. Ordinò un cappuccino e si limitò a subire il cicaleggio delle due.
Quelle bevevano e mangiavano dolciumi, i loro occhi appesantiti da un trucco che ormai non serviva più a migliorarne l’apparenza, semmai la peggiorava, le rughe agli angoli delle labbra, i colli come due tartarughe. Sara sorbì con cautela il primo sorso del cappuccino, appena tiepido come una fornace della Lucchini. La lingua ustionata non migliorava la sua predisposizione d’animo, ricordò la rabbia e l’impotenza, la falsità e l’assenza di scrupoli.
Tutto passava nella sua testa, anni di disprezzo in pochi minuti.
Le paste sul tavolo, il bianco del latte e il nero del caffè, il rosso delle fragole, il verde dei chicchi d’uva, il marrone del cioccolato, la sofficità della panna, sembrava un tè di altri tempi, e lei si sentiva come Alice sotto acido, il suo Bianconiglio era una via di fuga che non esisteva.
Si alzò, andò al bancone, approfittò dell’assenza momentanea del barista e agguantò un coltello da limone, in bella vista su un tagliere, che pareva dire “prendimi, prendimi”.
Tornò con serena lentezza al tavolino, tenendo dietro di sé la mano che impugnava la lama. In una frazione di secondo l’affondò nella gola del golem, il sangue schizzò sui bignè alla panna, tutti urlarono, l’amica del golem svenne, Sara sentì il calore del sangue e della felicità della liberazione sul suo viso. La sua pelle bianca e liscia era schizzata di calde perle rosso scuro, i suoi occhi nocciola avevano un barlume dorato nella pupilla, le sue labbra rosee erano increspate in un sorriso di tenerezza e gratitudine “Mamma, ho fatto quello che dovevo”.

Poi si svegliò.
Le tre di notte. Era accaduto di nuovo, il suo senso di colpa non trovava requie.
“Ho di nuovo ucciso la vecchia stronza” pensò. Ogni volta che lo faceva nel sogno, desiderava ardentemente poterlo fare nella realtà, restando possibilmente impunita.
Aveva qualcosa di bacato nella testa. O forse no: aveva letto da qualche parte che sognare la vendetta, sognare di uccidere qualcuno, è un modo “sano” per fare i conti con le proprie frustrazioni, è una specie di sfogo inconscio che grazie a Dio impedisce alle persone di commettere realmente un delitto. Insomma, gli assassini e i serial killer non facevano questi sogni. O forse glielo aveva spiegato lo psichiatra. Probabilmente sì, in una delle sedute più o meno inutili a cui Sara si sottoponeva da qualche anno.
Avrebbe dovuto chiamarlo? Non certo alle tre di notte, e poi che avrebbe potuto dirle? Lo aveva inquadrato ormai: prendeva di buon grado quei novanta euro orari corrispondenti alla sua tariffa, esentasse, mai vista una ricevuta, forse le usava per fare aeroplanini, gonnellini hawaiani, o forse ci si esercitava per un concorso mondiale dilettanti di Origami.
Di sicuro il fisco non era tra le priorità di quell’uomo, interpretatore di sogni, venditore di ascolto, prodigante consigli come “scrivere su un foglietto ciò che ti angustia”, portatore di occhiali con montatura d’oro, possessore di barca a vela, campione di dormita ad occhi aperti, che lui faceva passare per concentrazione, “Ci vediamo alla prossima seduta, martedì”. Ed era tutto.
Forse avrebbe dovuto pugnalare lo psichiatra e riprendersi i soldi.

Analizzò attentamente la sua condizione: era sudata, colpevole, ansiosa, non riusciva a riaddormentarsi, guardava l’essere spiaggiato al suo fianco, il suo ragazzo, che dormiva, e che quando era sveglio non parlava, utile come un buco del culo sul gomito.
Soppesava sé stessa, nella vita: dimessa, timorosa, senza coraggio, malinconica, eternamente vittima.

Male, molto male. Fu un attimo e chiamò il telefono amico. Lo aveva visto su una rivista e lo aveva salvato, non si sa mai. Pensava che chi fa ricorso a una cosa simile dovesse essere uno sfigato solo al mondo, eppure lei aveva degli amici, un ragazzo fantasma e uno psichiatra stronzo. Non era sola.
Ma compose il numero.
“Pronto, come posso aiutarla?”
“Beh, sto di merda, sogno spesso di uccidere una vecchia e il mio psichiatra non ha niente di intelligente da dire al riguardo. Ho chiamato perché non riesco a dormire”
“Lei prende dei farmaci? Ce ne sono di blandi che aiutano a dormire serenamente”
“Scusi ma ho per caso chiamato il “Telefono amico del Farmacista?” Si fotta!”
Riagganciò con violenza e la cornetta le rimbalzò su una rotula, cadde a terra e restò lì a fare tuttù.

La ridicola idiozia del quadretto era troppo anche per Sara, che di solito adorava i situazionismi demenziali.

Il sogno dopotutto le aveva fatto venire fame. Andò in cucina, sperando di trovare qualcosa di dolce e buono. Per una volta fu accontentata: nel frigorifero un avanzo di torta faceva bella mostra di sé, un dolce gelato al cioccolato portato da un’amica dell’uomo-ameba che le dormiva accanto.
L’amica dell’uomo-ameba era tutt’altro che ameba, era molto sveglia e chiaramente attratta dall’ammasso di silenzio e capelli che era la miglior definizione possibile per l’uomo-ameba. Sara sperava quasi che lui, in un inedito momento di lucidità e di vita neuronale, decidesse di scoparsi l’amica: così lei avrebbe avuto una buona scusa per disfarsi di lui. Ma per lui sarebbe stata una fatica inaudita anche scoparsi una donna, una qualunque, Sara compresa.

Affettò la torta, era molto buona. Che avrebbe fatto il giorno dopo con quel peso addosso? Intanto prese il coltello, un coltello troppo grande per una torta e troppo affilato per una torta gelato, e lo guardò, quanto era lucido e semplice. Elegante e freddo.

Prese la torta e se la portò in salotto decisa a finirla.
Puliva la lama dopo ogni taglio e guardava il suo volto che vi si specchiava parziale, ora il naso, ora gli occhi, ora la bocca o il mento, scaglie di sé stessa riflesse nell’acciaio.
Valeva la pena pulirlo e farlo brillare al buio, frapponendolo come schermo alla luce intermittente dell’insegna del bar di fronte che non chiudeva mai e poi mai.

Continuò a fissarlo finché si addormentò.

Si alzava dal divano, con la bocca ancora sporca di cioccolato, andava in camera, guardava l’uomo-ameba e affondava la lama nel petto di quel povero piccolo stupido. Coltellate metodiche in sequenza, sangue caldo che sgorgava dalle ferite, lenzuola intrise. Silenzio.

Si svegliò, di nuovo.
“Ancora, ho davvero qualcosa di bacato nella testa”. Erano ormai le sette e trenta del mattino, poteva chiamare lo psichiatra, giusto per infastidirlo, e raccontargli i sogni.
Allungò la mano a prendere la cornetta, compose il numero che sapeva a memoria, lasciando impronte di sangue sull’apparecchio.












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