Sara guardava con sospetto e odio la faccia
rugosa della vecchia donna, la scrutava dal sedile posteriore, riflessa nello
specchietto retrovisore. Il suono delle chiacchiere della vecchia e dell’amica
che le sedeva accanto arrivava ovattato dietro, come un tappetto sonoro
indistinto, Sara era concentrata solo quegli occhi.
“Ti conosco da quando sei nata tesoro, come
puoi credere che sia stata io? Non so neppure perché ne fosse convinta tua
madre, forse la malattia le dava alla testa negli ultimi tempi”.
Bugie, Sara sapeva che quella vipera le aveva
fatto del male e che la sua natura invidiosa e crudele non si fermava davanti a
niente, il suo delirio egoistico di onnipotenza, il desiderio di distruggere
ciò che non poteva avere, l’avevano portata a fare cose terribili, sempre nascondendosi
dietro quell’aria fragile e minuta. Ora che era vecchia appariva ancora più
fragile, ma Sara in quel volto avvizzito vedeva solo un demone voodoo. Un
demone nano, ma pur sempre un demone. Alla guida di un’enorme auto beige
metallizzata, con gli interni in pelle color crema, morbidi e lisci.
Le due anziane amiche di sua madre (se amiche
si potevano definire) avevano deciso di portarla a fare un giro, di farla
uscire di casa per offrirle una colazione in qualche bar chic del centro e
farle comprare qualche vestito, come due vecchie zie fintamente innocue.
Potevano rammentare le nonnette di “Arsenico e vecchi merletti”, ma senza la
stessa simpatia.
La prima tappa fu Scudieri in piazza Duomo.
Si sedettero e ordinarono, Sara era impegnata nello sforzo di fingere che tutto
fosse normale, ma il desiderio di saltare al collo della vecchia voodoo era più
forte di lei. Ordinò un cappuccino e si limitò a subire il cicaleggio delle
due.
Quelle bevevano e mangiavano dolciumi, i loro
occhi appesantiti da un trucco che ormai non serviva più a migliorarne l’apparenza,
semmai la peggiorava, le rughe agli angoli delle labbra, i colli come due
tartarughe. Sara sorbì con cautela il primo sorso del cappuccino, appena
tiepido come una fornace della Lucchini. La lingua ustionata non migliorava la
sua predisposizione d’animo, ricordò la rabbia e l’impotenza, la falsità e
l’assenza di scrupoli.
Tutto passava nella sua testa, anni di
disprezzo in pochi minuti.
Le paste sul tavolo, il bianco del latte e il
nero del caffè, il rosso delle fragole, il verde dei chicchi d’uva, il marrone
del cioccolato, la sofficità della panna, sembrava un tè di altri tempi, e lei
si sentiva come Alice sotto acido, il suo Bianconiglio era una via di fuga che
non esisteva.
Si alzò, andò al bancone, approfittò
dell’assenza momentanea del barista e agguantò un coltello da limone, in bella
vista su un tagliere, che pareva dire “prendimi, prendimi”.
Tornò con serena lentezza al tavolino,
tenendo dietro di sé la mano che impugnava la lama. In una frazione di secondo
l’affondò nella gola del golem, il sangue schizzò sui bignè alla panna, tutti
urlarono, l’amica del golem svenne, Sara sentì il calore del sangue e della
felicità della liberazione sul suo viso. La sua pelle bianca e liscia era
schizzata di calde perle rosso scuro, i suoi occhi nocciola avevano un barlume
dorato nella pupilla, le sue labbra rosee erano increspate in un sorriso di
tenerezza e gratitudine “Mamma, ho fatto quello che dovevo”.
Poi si svegliò.
Le tre di notte. Era accaduto di nuovo, il
suo senso di colpa non trovava requie.
“Ho di nuovo ucciso la vecchia stronza”
pensò. Ogni volta che lo faceva nel sogno, desiderava ardentemente poterlo fare
nella realtà, restando possibilmente impunita.
Aveva qualcosa di bacato nella testa. O forse
no: aveva letto da qualche parte che sognare la vendetta, sognare di uccidere
qualcuno, è un modo “sano” per fare i conti con le proprie frustrazioni, è una
specie di sfogo inconscio che grazie a Dio impedisce alle persone di commettere
realmente un delitto. Insomma, gli assassini e i serial killer non facevano
questi sogni. O forse glielo aveva spiegato lo psichiatra. Probabilmente sì, in
una delle sedute più o meno inutili a cui Sara si sottoponeva da qualche anno.
Avrebbe dovuto chiamarlo? Non certo alle tre
di notte, e poi che avrebbe potuto dirle? Lo aveva inquadrato ormai: prendeva
di buon grado quei novanta euro orari corrispondenti alla sua tariffa,
esentasse, mai vista una ricevuta, forse le usava per fare aeroplanini,
gonnellini hawaiani, o forse ci si esercitava per un concorso mondiale
dilettanti di Origami.
Di sicuro il fisco non era tra le priorità di
quell’uomo, interpretatore di sogni, venditore di ascolto, prodigante consigli
come “scrivere su un foglietto ciò che ti angustia”, portatore di occhiali con
montatura d’oro, possessore di barca a vela, campione di dormita ad occhi
aperti, che lui faceva passare per concentrazione, “Ci vediamo alla prossima
seduta, martedì”. Ed era tutto.
Forse avrebbe dovuto pugnalare lo psichiatra
e riprendersi i soldi.
Analizzò attentamente la sua condizione: era
sudata, colpevole, ansiosa, non riusciva a riaddormentarsi, guardava l’essere
spiaggiato al suo fianco, il suo ragazzo, che dormiva, e che quando era sveglio
non parlava, utile come un buco del culo sul gomito.
Soppesava sé stessa, nella vita: dimessa,
timorosa, senza coraggio, malinconica, eternamente vittima.
Male, molto male. Fu un attimo e chiamò il
telefono amico. Lo aveva visto su una rivista e lo aveva salvato, non si sa
mai. Pensava che chi fa ricorso a una cosa simile dovesse essere uno sfigato
solo al mondo, eppure lei aveva degli amici, un ragazzo fantasma e uno
psichiatra stronzo. Non era sola.
Ma compose il numero.
“Pronto, come posso aiutarla?”
“Beh, sto di merda, sogno spesso di uccidere
una vecchia e il mio psichiatra non ha niente di intelligente da dire al
riguardo. Ho chiamato perché non riesco a dormire”
“Lei prende dei farmaci? Ce ne sono di blandi
che aiutano a dormire serenamente”
“Scusi ma ho per caso chiamato il “Telefono
amico del Farmacista?” Si fotta!”
Riagganciò con violenza e la cornetta le
rimbalzò su una rotula, cadde a terra e restò lì a fare tuttù.
La ridicola idiozia del quadretto era troppo
anche per Sara, che di solito adorava i situazionismi demenziali.
Il sogno dopotutto le aveva fatto venire
fame. Andò in cucina, sperando di trovare qualcosa di dolce e buono. Per una
volta fu accontentata: nel frigorifero un avanzo di torta faceva bella mostra
di sé, un dolce gelato al cioccolato portato da un’amica dell’uomo-ameba che le
dormiva accanto.
L’amica dell’uomo-ameba era tutt’altro che
ameba, era molto sveglia e chiaramente attratta dall’ammasso di silenzio e
capelli che era la miglior definizione possibile per l’uomo-ameba. Sara sperava
quasi che lui, in un inedito momento di lucidità e di vita neuronale, decidesse
di scoparsi l’amica: così lei avrebbe avuto una buona scusa per disfarsi di
lui. Ma per lui sarebbe stata una fatica inaudita anche scoparsi una donna, una
qualunque, Sara compresa.
Affettò la torta, era molto buona. Che
avrebbe fatto il giorno dopo con quel peso addosso? Intanto prese il coltello,
un coltello troppo grande per una torta e troppo affilato per una torta gelato,
e lo guardò, quanto era lucido e semplice. Elegante e freddo.
Prese la torta e se la portò in salotto
decisa a finirla.
Puliva la lama dopo ogni taglio e guardava il
suo volto che vi si specchiava parziale, ora il naso, ora gli occhi, ora la
bocca o il mento, scaglie di sé stessa riflesse nell’acciaio.
Valeva la pena pulirlo e farlo brillare al
buio, frapponendolo come schermo alla luce intermittente dell’insegna del bar
di fronte che non chiudeva mai e poi mai.
Continuò a fissarlo finché si addormentò.
Si alzava dal divano, con la bocca ancora
sporca di cioccolato, andava in camera, guardava l’uomo-ameba e affondava la
lama nel petto di quel povero piccolo stupido. Coltellate metodiche in
sequenza, sangue caldo che sgorgava dalle ferite, lenzuola intrise. Silenzio.
Si svegliò, di nuovo.
“Ancora, ho davvero qualcosa di bacato nella
testa”. Erano ormai le sette e trenta del mattino, poteva chiamare lo
psichiatra, giusto per infastidirlo, e raccontargli i sogni.
Allungò la mano a prendere la cornetta,
compose il numero che sapeva a memoria, lasciando impronte di sangue sull’apparecchio.
Nessun commento:
Posta un commento