mercoledì 30 dicembre 2020

CASTELLI, NOTTI E COLTELLI di Lorenzo Bellandi

 -Perché non ho detto di no? - Pensava K. mentre seguiva il tour nel castello. Odiava quel genere di cose, eppure quando sua madre gli aveva chiesto se ci voleva andare, aveva risposto di sì. Probabilmente era per non farla dispiacere, dopotutto le aveva dato già un sacco di problemi. Ogni tanto, una gioia, quella santa donna se la meritava. Però, all’ultimo, lei aveva avuto un impegno di lavoro, così si era ritrovato solo, in mezzo ad un gregge di turisti anglosassoni, patetici quanto la loro intramontabile accoppiata sandalo-calzino bianco.

Per di più, doveva ancora smaltire la sadica sbronza della sera prima, che si ribellava come una scimmia in gabbia nella sua testa. Intanto la guida passava da una sala all’altra raccontando di quel lord, di quel mecenate, o di quella volta che. A K. però non fregava un cazzo. Così dopo l’ennesima noiosa stanza, decise che si sarebbe svincolato dal gruppo.

Colse l’occasione quando, mentre il gruppo si muoveva, vide una piccola porta bianca, che sembrava riservata agli addetti ai lavori. Sparì con destrezza e disinvoltura, furtivamente aprì l’apparentemente insignificante porta e la chiuse alle sue spalle. Qui, però trovo qualcosa che solleticava il suo interesse. Nella stanza infatti c’era un set di diverse armi bianche. In particolare degli esotici coltelli catturarono la sua attenzione. Non che K. fosse un appassionato di armi in generale, di antiquariato o di qualsiasi cosa che potesse avere un valore storico, ma quelle armi avevano per qualche strano motivo attratto i suoi occhi, la sua mente e persino il suo cuore. Restò immobile di fronte alla tavola su cui questi erano stesi.

Era come in estasi. Per un istante gli parve che i coltelli fossero esseri senzienti, rinchiusi in un secolare letargo, pronti a risvegliarsi per essere posseduti dal prossimo volgare umano, cui era concessa, a differenza loro, la volontà e la capacità di perseguirla. Ad un tratto, riprendendosi dalla contemplazione dei coltelli, K. si accorse, scorgendo il buio oltre una timida finestrella che era sfuggita alla sua frettolosa scansione della stanza, che la notte era sopraggiunta. Ma come era possibile? Gli pareva di essere in quella stanza da non più di un paio di minuti. Il museo con ogni probabilità doveva essere chiuso. Possibile che nessuno si fosse accorto che era rimasto là dentro? A quanto pareva sì. Ma a K. non importò un granchè. Sarebbe rimasto con quei coltelli che su di lui esercitavano tanto fascino. Era attratto da loro come da un interiore forza centrifuga. Potendo non se ne sarebbe mai separato, e, pensandoci bene, chi avrebbe potuto opporsi ad una volontà tanto ardente?

“Nessuno” rifletté compiaciuto il ragazzo. Decise di dormire un po’. Non tanto, solo lo stretto necessario, per poi risvegliarsi in fretta e tornare alla contemplazione di quei seducenti strumenti di morte. Così fece per sdraiarsi a terra, proprio ai piedi del tavolo indegno, che sorreggeva il peso dei divini oggetti. Ma proprio mentre stava per chiudere gli occhi si accorse che il sole era alto al di fuori di quella piccola finestra, a dire il vero, più piccola di quanto gli era apparsa un minuto prima. Non se ne curo, era vicino ai suoi coltelli. Suoi.

Ormai erano suoi. Quando si risvegliò, la finestra sembrava una crepa insulsa nel muro bianco. La sua schiena soffriva, si tirò sua freneticamente e a fatica per assicurarsi che i coltelli adorati fossero ancora lì. Con un sospiro di sollievo li vide riposare dolcemente sul tavolo, come se fossero dei cuccioli. Fece per accarezzarli, ma fu allora che notò la sua stessa mano. Quella che doveva essere la mano di un sedicenne sembrava quella di un ottantenne. Le sue mani sciupate e decrepite. La sua pelle giallastra e smorta sembrava attaccata alle ossa con l’ultima briciola di volontà. Guardò le gambe. Secche come rami da fuoco. I capelli, che solo una dormita prima erano di un nero splendente, sistemati in un acconciatura perfetta, adesso erano bianchi, e scivolavano senza vita giù per le sue guance fino a toccargli le spalle. Ebbe un momento di panico. Quei coltelli! Quei coltelli gli avevano fatto questo. Eppure non li odiava. Per niente. In un momento di lucidità si rese conto dell’ossessione che in lui era germogliata nell'esatto istante in cui li aveva visti per la prima volta, doveva andarsene. Fece per andarsene. Ma la porta dalla quale era entrato non c’era più. Un’orrida espressione frutto della consapevolezza della fine baleno sul suo volto, ma rapidamente, il ritratto del terrore, si trasformò in gioia, ed esplose in risa di follia senza denti. Nessuno adesso avrebbe potuto separarlo dai suoi coltelli. Di K. non si seppe più nulla. Le autorità indagarono sulla sua scomparsa, ma ben presto archiviarono il caso come la fuga di un giovane. Non avevano trovato niente che facesse pensare loro qualcosa di più grave. Solo una pista gli era stata data loro da un testimone. Un tedesco che diceva di averlo visto entrare in una porta durante un tour in un museo, ma fu abbandonata, perché quella porta non si trovava da nessuna parte.

 

 

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