lunedì 4 giugno 2018

MIO PADRE di Andrea Mitri

Alle volte penso che questa storia non mi appartenga, che sia qualcosa che allo stesso tempo mi coinvolge ed in qualche modo mi allontana, vista la forza che l’ha generata e la mia iniziale estraneità alla stessa.

E spesso mi convinco che ci sia, all’interno di questi possibili fatti, qualcosa di omesso, di non raccontato; o addirittura di pilotato, per fare sì , che di questa storia, io conservi per sempre un ricordo dolce e malinconico.

Ogni tanto metto il 45 giri sul piatto, appoggio la puntina sul solco della traccia A e mentre si spandono le prime note, mi affaccio alla finestra grande, quella che dà sul giardino; e semplicemente ascolto quei quattro minuti e quarantacinque che appartengono alla mia vita, che l’hanno segnata e in qualche modo costruita.

Ci sono degli accordi sommessi di chitarra, all’inizio, ad accompagnarmi nella camminata verso la finestra. Con il tempo ho imparato a scostare la tenda esattamente sull’entrata del basso e della batteria. Appoggio il naso sul vetro, prendo un respiro, butto fuori l’aria lentamente e dalle casse arriva la voce di Sondra Weller.

La sua voce roca e quasi disperata continua ancora oggi, a dodici anni di distanza dal primo ascolto, a percorrermi dentro, a graffiarmi l’anima, a farmi sentire solo al mondo.

Il disco è del 1972 e si intitola “My simple wonderful family B”e probabilmente a molti non dirà niente. Ma chiunque ha la pazienza di seguire la voce fino all’ingresso dell’organo Hammond,  non può fare a meno di stupirsi e commentare che si, questa è proprio “The Circle of Life “,  tratta dalla colonna sonora del Re Leone e che probabilmente è una versione azzardata cantata da Amy Winehouse.

Sondra Weller era mia madre.

Dico era, perché mi ha lasciato dodici anni fa: senza avermi detto chi era mio padre.

Questa cosa, apparentemente, non mi risulta da allora più pervadente di quanto lo fosse prima, come se la quasi certezza che questo uomo non si paleserà mai davanti alla mia porta o all’interno di qualunque altro spazio potrebbe essere deputato ad un incontro procrastinato, sia ormai una delle poche certezze che mi abiteranno in questa vita.

Alle volte l’ho immaginato, questo uomo dai capelli biondi, o neri, dalla pelle olivastra o bianca , alto basso, magro grasso, sorridente ombroso, con l’aria di essere di passaggio da quelle parti . Ho immaginato che mi sollevasse in aria, mi riprendesse al volo e mi dicesse che potevo andare a trovarlo ogni volta che volevo, nel Wisconsin, in Australia, a Parigi, a Civitella sul Reno.

Mi sono anche raramente illuso, che un giorno una macchina si sarebbe fermata in un qualunque posto possibile e che mia madre, sorridendo, mi avrebbe spinto verso l’uomo che apriva la portiera, dicendomi solo che mi avrebbe aspettata al mio ritorno.

Non è accaduto, ma sono cresciuto bene comunque, circondato dall’amore delle componenti il WUR (“Women under Recostruction”) il gruppo femminista di cui mia madre è stata cofondatrice, il 27 aprile del 1973. Non mi è mai mancato niente, e tuttora sono sufficientemente felice. Penso che la famiglia che ci insegnano sia comunque una convenzione, un contratto di rassicurante assembramento a combattere le brutture del mondo, atta fondamentalmente a costituire un rifugio possibile quando il buio sta per scendere e meno facile ti sembra il peregrinare per le strade in cerca di risposte.

Non mi sono mancati i calci al pallone, i lanci del baseball, la pesca al salmone, i discorsi sul sesso e tutti gli altri inutili momenti di comunanza maschile padre figlio, osservati nei film che hanno riempito la mia adolescenza per niente ribelle. E alla fine, mio padre, non l’ho cercato.

Paul Brewer, il mio collega dell’autolavaggio, insiste ancora oggi nel dire che su questa cosa del Re Leone, e di quel 45 giri, io dovrei indagarci fino a togliermi ogni dubbio. Io gli rispondo che non esiste, che il re Leone non può essere mio padre: e ridiamo, ridiamo forte, fino quasi a sentire che noi due potremmo anche essere una famiglia, se non fosse così anticonvenzionale che un’amicizia si trasformi in nucleo abitativo profondo.

A dire il vero una volta ho recuperato, tramite una amica con cui talvolta giochiamo a costruirci una famiglia temporanea tra sesso, cinema e lunghi pianti, il numero di cellulare di Elton John. Senza pensare per un attimo alla sua omosessualità conclamata ho chiamato per chiedergli se per caso lui fosse mio padre oppure,in seconda battuta,per accusarlo di essere un triste plagiatore di musiche altrui: ma non ho avuto il coraggio di parlare quando lui ha risposto.

Vivo una vita normale, tra lavoro, amicizie e qualche viaggio.

Il sabato mattina vengono a trovarmi le amiche di mia madre , ingrigite , deformate dal tempo che passa o irregimentate nella asciuttezza della loro pratica yoga. Parliamo di lei, dei tempi andati, dei sogni che sono stati smaterializzati e di quelli che ancora possiamo costruire. E anche di loro penso che in fin dei conti potrebbero essere la mia famiglia, perché a lungo lo sono state, tra manifestazioni di affetto e manifestazioni di protesta, marce della pace e camminate nel parco, slogan ad alta voce e ninne nanne della sera tardi.

Non esiste la famiglia perfetta, siamo soltanto anime in movimento, talvolta aggregate talvolta disperse, che attraversano per periodi più o meno lunghi gli accadimenti della vita, creando e cercando luoghi e mani tra le quali fermarsi. Alle volte ci illudiamo di essere tra le persone giuste, ma siamo solo tra persone momentaneamente connesse, brevemente collegate ai fatti in accadimento, tese a riprendere forze prima del successivo passaggio.

Per questo continuo a vivere da solo, in questa grande casa che si affaccia su questo giardino di rose che mia madre mi ha fatto promettere non verrà mai lasciato all’abbandono al tempo, atmosferico e non:perché credo che sono stato già famiglia in un altro tempo, in un’altra vita e che in questa non lo sarò.

Quando però il dolore di essere solitudine nel mondo si fa forte e mi sembra poco chiaro dove mi deve condurre questo percorso accidentato e meraviglioso che chiamiamo vita, io semplicemente penso ad un fumoso garage del Village, mia madre seduta su di una sedia scassata e mio padre al basso, alla chitarra, oppure all’ organo Hammond. Si guardano, lui accenna qualche nota e lei canta. E io so che sono tra loro, nell’aria inespressa del futuro di lì a poco a venire,di quello che sarà più distante e del passato che non ci appartiene.

Lo so che è solo un millesimo di secondo nella vita enorme ed eterna che ci circonda, ma so che siamo lì e che lì saremo uniti per sempre, amori successivamente dispersi nel mondo, ma per sempre incatenati ad un vecchio vinile che comincia sempre più a gracchiare, quasi fosse la tosse di un vecchio destinato a breve a non riuscire a parlare.

E penso che sì, anche io ho avuto un padre.

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