domenica 30 giugno 2019

FINO ALL’ULTIMO SCONTRO di Andrea Mitri

Lui era quello bello, elegante.
Io invece ero quello brutto, con la faccia da indio già segnata dalla vita.
Lui era il campione del mondo del cazzo, quello dei famosi scontri con Griffith in mondovisione. Io un argentino semi sconosciuto, che fino ad allora aveva combattuto anche tre volte in un mese, nei garage di Buenos Aires per tirare fuori i soldi per vivere. Ero il sesto di dodici figli, alcuni finiti dalla parte opposta alla legge.
Se ripenso alla presentazione di quel match, lui è circondato dai giornalisti, dai fotografi. Io sono quello che non fotografa quasi nessuno, quello scuro in volto, in disparte. Ho 28 anni ... e sarò la sua fine.
Alla dodicesima ripresa, Nino Benvenuti finisce giù al tappeto, giù da tutto. Dalle luci, dalle pagine dei giornali, dalle ospitate in televisione, dalle radiocronache in diretta con tutta l’Italia attaccata alla radiolina; lontano dalle signore eleganti piene di gioielli e con i capelli a posto, sedute in prima fila a fianco all’industriale di successo, a far finta di spaventarsi per la violenza sul ring.
Sul tetto del mondo ci ho messo la mia faccia di pietra. E ce l’ho lasciata per sette anni, senza perdere mai, perché arrendersi una volta, per me che vengo dalla strada, significa aver perso per sempre.
Se mi guardavi dritto dentro gli occhi, prima di affrontarmi sul ring, avevi già perso.
Ci hanno provato in tanti a buttarmi giù di lì, Griffith, Bouttier, Benvenuti stesso, Briscoe ed altri. Ma ci è riuscita solo la WBC , una delle due associazioni che gestivano allora la boxe nel mondo, che mi tolse il titolo perché non accettavo di combattere contro Valdès.
Non avevo paura di quel colombiano del cazzo, ma avevo altre cose a cui pensare, fuori dal ring. Mi piacevano le macchine veloci, le belle donne, i personaggi famosi e mi piaceva fare festa con gli amici. Potevo permettermelo. 
Mia moglie, Beatriz, la madre dei miei tre figli non lo accettava. Non posso darle torto, neanche ora. Probabilmente ero un figlio di puttana e lei aveva ragione, quando mi ha scaricato nella schiena una pistola, una notte che ero rientrato particolarmente tardi. Non mi ha buttato giù neanche lei cazzo … anche se nella schiena mi sono rimaste alcune schegge di proiettile.
Ero un buon incassatore, oltre che uno veloce e dalla mano pesante.
Quelli della WBC continuavano a scassarmi le palle con la storia di Valdes, questo ballerino fighetto che voleva assolutamente combattere con me. Volevano riunificare il titolo dei pesi medi ed erano convinti che lui fosse in grado di battermi.
Non avevo più troppa voglia di allenarmi, passavo più tempo nei locali che in palestra e la rabbia che avrei dovuto tenermi per quando salivo sul ring la consumavo in scoppi d’ira e in accenni di risse, inutili.
Alla fine ho accettato.
Ci sono i miei amici tra il pubblico quel 25 giugno del ’76, a Montecarlo. E tra i miei amici ci sono Alain Delon, Jean Paul Belmondo e Susana Gimenez, l’unica tra le attrici che frequento che mi fa piacere rivedere nel mio letto, la mattina successiva.
Lui è bravo, ma non lo è abbastanza. Alla quattordicesima lo butto giù. Ce la fa a rialzarsi ma non può più farmi male: può solo trascinarsi fino all'ultimo round, sconfitto, ributtato indietro, lontano da me, che ora posso ritornare a correre con le macchine, a circondarmi di modelle, di alcool, di parassiti.
Quel figlio di puttana però, non era rimbalzato abbastanza. Continuava a chiedere la rivincita, si allenava fino allo sfinimento e mi sfidava ogni cazzo di volta che gli veniva concesso di farlo.
Io ero stanco, avevo 34 anni. Ero stufo di essere Carlos Monzon, il pugile imbattibile che tutti vogliono distruggere.
Ho accettato, non lo so nemmeno ora perché.
Ma ho anche dichiarato che quello sarebbe stato il mio ultimo incontro, cazzo.
E’ il 30 luglio del 77. Al secondo round subisco già un conteggio. Lui balla intorno, quasi fosse in un film americano di Fred Astaire: è veloce, imprevedibile, mi manda fuori giri. Al quarto le gambe mi si piegano, poggio la mano a terra e l’arbitro mi conta una seconda volta. Sento la gente godere del fatto che finalmente mi vedranno perdere, che la mia faccia di pietra conoscerà il male che finora ho soltanto disseminato.
Mi aggrappo alla saggezza, che non è mai stata una mia qualità. Aspetto che la tempesta passi e colpo su colpo provo a rialzare la testa. Per una volta coltivo la pazienza, secondo dopo secondo, fino a quando i suoi guantoni gialli non fanno più male, i suoi passi di danza diventano movimenti di piedi e basta, il suo viso smette di essere quello di un divo del cinema e ritorna ad essere un bersaglio.
Non andrà al tappeto, ma dal decimo round in poi non vedrà l’ora che tutto finisca, che qualcuno lo levi dalle mani di quel vecchio ferito e rabbioso che ha davanti.
Avevo finito di stare in cima al mondo, ma avevo finito da re.
Poi c’è solo merda.
I soldi che finiscono in mano a gente che li fa sparire, il sogno di fare cinema che rimane poco più di un sogno, l’alcool, la rabbia e quel maledetto giorno di San Valentino del 1988, in cui trovano Alicia, la madre del mio quarto figlio, sfracellata al suolo, sul marciapiede davanti all'ingresso del residence di Mar de la Plata dove alloggiavamo.
Io non ricordo come è successo, non ho immagini di quel giorno, se non quella del momento in cui mi portano via.
Ho passato 7 anni in carcere, prima di poter di nuovo uscire per qualche ora nel pomeriggio, con un permesso per buona condotta… Già, Carlos Monzon premiato per buona condotta…
Mi piacerebbe uscire anche qualche sera, far tardi con qualche amico vero, anche solo a chiacchierare, senza per forza doversi ubriacare. Sarebbe bello. Ma per ora mi basta così.
Merda !

(Buio. Si sente il rumore della frenata di una macchina e poi quello di uno schianto)



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