Lui era quello bello,
elegante.
Io invece ero quello
brutto, con la faccia da indio già segnata dalla vita.
Lui era il campione
del mondo del cazzo, quello dei famosi scontri con Griffith in mondovisione. Io
un argentino semi sconosciuto, che fino ad allora aveva combattuto anche tre volte
in un mese, nei garage di Buenos Aires per tirare fuori i soldi per vivere. Ero
il sesto di dodici figli, alcuni finiti dalla parte opposta alla legge.
Se ripenso alla
presentazione di quel match, lui è circondato dai giornalisti, dai fotografi.
Io sono quello che non fotografa quasi nessuno, quello scuro in volto, in
disparte. Ho 28 anni ... e sarò la sua fine.
Alla dodicesima
ripresa, Nino Benvenuti finisce giù al tappeto, giù da tutto. Dalle luci, dalle
pagine dei giornali, dalle ospitate in televisione, dalle radiocronache in
diretta con tutta l’Italia attaccata alla radiolina; lontano dalle signore
eleganti piene di gioielli e con i capelli a posto, sedute in prima fila a
fianco all’industriale di successo, a far finta di spaventarsi per la violenza
sul ring.
Sul tetto del mondo
ci ho messo la mia faccia di pietra. E ce l’ho lasciata per sette anni, senza
perdere mai, perché arrendersi una volta, per me che vengo dalla strada,
significa aver perso per sempre.
Se mi guardavi dritto
dentro gli occhi, prima di affrontarmi sul ring, avevi già perso.
Ci hanno provato in
tanti a buttarmi giù di lì, Griffith, Bouttier, Benvenuti stesso, Briscoe ed
altri. Ma ci è riuscita solo la WBC , una delle due associazioni che gestivano
allora la boxe nel mondo, che mi tolse il titolo perché non accettavo di
combattere contro Valdès.
Non avevo paura di
quel colombiano del cazzo, ma avevo altre cose a cui pensare, fuori dal ring.
Mi piacevano le macchine veloci, le belle donne, i personaggi famosi e mi
piaceva fare festa con gli amici. Potevo permettermelo.
Mia moglie, Beatriz,
la madre dei miei tre figli non lo accettava. Non posso darle torto, neanche
ora. Probabilmente ero un figlio di puttana e lei aveva ragione, quando mi ha
scaricato nella schiena una pistola, una notte che ero rientrato
particolarmente tardi. Non mi ha buttato giù neanche lei cazzo … anche se nella
schiena mi sono rimaste alcune schegge di proiettile.
Ero un buon
incassatore, oltre che uno veloce e dalla mano pesante.
Quelli della WBC
continuavano a scassarmi le palle con la storia di Valdes, questo ballerino
fighetto che voleva assolutamente combattere con me. Volevano riunificare il
titolo dei pesi medi ed erano convinti che lui fosse in grado di battermi.
Non avevo più troppa
voglia di allenarmi, passavo più tempo nei locali che in palestra e la rabbia
che avrei dovuto tenermi per quando salivo sul ring la consumavo in scoppi
d’ira e in accenni di risse, inutili.
Alla fine ho
accettato.
Ci sono i miei amici
tra il pubblico quel 25 giugno del ’76, a Montecarlo. E tra i miei amici ci
sono Alain Delon, Jean Paul Belmondo e Susana Gimenez, l’unica tra le attrici
che frequento che mi fa piacere rivedere nel mio letto, la mattina successiva.
Lui è bravo, ma non
lo è abbastanza. Alla quattordicesima lo butto giù. Ce la fa a rialzarsi ma non
può più farmi male: può solo trascinarsi fino all'ultimo round, sconfitto,
ributtato indietro, lontano da me, che ora posso ritornare a correre con le
macchine, a circondarmi di modelle, di alcool, di parassiti.
Quel figlio di
puttana però, non era rimbalzato abbastanza. Continuava a chiedere la
rivincita, si allenava fino allo sfinimento e mi sfidava ogni cazzo di volta
che gli veniva concesso di farlo.
Io ero stanco, avevo
34 anni. Ero stufo di essere Carlos Monzon, il pugile imbattibile che tutti
vogliono distruggere.
Ho accettato, non lo
so nemmeno ora perché.
Ma ho anche
dichiarato che quello sarebbe stato il mio ultimo incontro, cazzo.
E’ il 30 luglio del
77. Al secondo round subisco già un conteggio. Lui balla intorno, quasi fosse
in un film americano di Fred Astaire: è veloce, imprevedibile, mi manda fuori
giri. Al quarto le gambe mi si piegano, poggio la mano a terra e l’arbitro mi
conta una seconda volta. Sento la gente godere del fatto che finalmente mi vedranno
perdere, che la mia faccia di pietra conoscerà il male che finora ho soltanto
disseminato.
Mi aggrappo alla
saggezza, che non è mai stata una mia qualità. Aspetto che la tempesta passi e
colpo su colpo provo a rialzare la testa. Per una volta coltivo la pazienza,
secondo dopo secondo, fino a quando i suoi guantoni gialli non fanno più male,
i suoi passi di danza diventano movimenti di piedi e basta, il suo viso smette
di essere quello di un divo del cinema e ritorna ad essere un bersaglio.
Non andrà al tappeto,
ma dal decimo round in poi non vedrà l’ora che tutto finisca, che qualcuno lo
levi dalle mani di quel vecchio ferito e rabbioso che ha davanti.
Avevo finito di stare
in cima al mondo, ma avevo finito da re.
Poi c’è solo merda.
I soldi che finiscono
in mano a gente che li fa sparire, il sogno di fare cinema che rimane poco più
di un sogno, l’alcool, la rabbia e quel maledetto giorno di San Valentino del
1988, in cui trovano Alicia, la madre del mio quarto figlio, sfracellata al suolo,
sul marciapiede davanti all'ingresso del residence di Mar de la Plata dove
alloggiavamo.
Io non ricordo come è
successo, non ho immagini di quel giorno, se non quella del momento in cui mi
portano via.
Ho passato 7 anni in
carcere, prima di poter di nuovo uscire per qualche ora nel pomeriggio, con un
permesso per buona condotta… Già, Carlos Monzon premiato per buona condotta…
Mi piacerebbe uscire
anche qualche sera, far tardi con qualche amico vero, anche solo a
chiacchierare, senza per forza doversi ubriacare. Sarebbe bello. Ma per ora mi
basta così.
Merda !
(Buio. Si sente il rumore della frenata di una macchina e
poi quello di uno schianto)
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