Suite
N° 920 dell’hotel Machiavelli. Fine della chiacchierata. Divanetto elegante, ma
scomodissimo, dello stesso colore di una moquette dove avevano appena passato
la falciatrice. Alla parete una stampa di quei pittori di cui tutti giurano di
essere stati all’ultima mostra: il quadro poteva averlo dipinto il fattorino
dell’ascensore.
“Senti,
scrittore, hai ancora qualche minuto da dedicarmi?”
“Tempo
scaduto, Monica, ho un appuntamento.”
“Con
chi?”
“Questa
domanda me la rivolge Monica la mia amica o Monica la giornalista pettegola?”
“Monica
la tua amica pettegola.”
“Ci
vediamo testona, stammi bene.”
Michael
uscì dall’albergo. Accanto al marciapiede una grossa macchina americana con la
portiera aperta sembrava aspettarlo. Sembrava, ma non era così. C’era una certa
animazione per strada. Qualche ragazzina di al massimo quindici anni
ancheggiava come se ne avesse trenta. Sulla faccia, qualche etto di trucco. I
vestiti li avevano fregati alle sorelle più grandi, i gioielli, voluminosi,
erano naturalmente bigiotteria; una di loro pareva avesse due scimmie appese
agli orecchi. Parlavano a voce alta, e nonostante le inevitabili sciocchezze
che condivano le loro chiacchiere, c’era vita nei loro sorrisi. Freschezza,
innocenza. Magari nessuna di loro avrebbe fatto la modella da grande, ma erano
lo stesso bellissime. Dall’altro lato del marciapiede, un gruppo di signore di
mezz’età era a passeggio. Camminavano come se avessero avuto trent’anni di
meno; sul viso, qualche chilo di fondotinta. Michael proseguì dritto fino alla
piazza, dove accanto al ridicolo monumento equestre c’era una donna vestita in
modo elegante. Musetto carino, minuta, belle forme. Lui non degnò d’uno sguardo
il monumento, sulla donna ci fece un pensierino, ma continuò lo stesso il suo
cammino. Quasi si scontrò contro due giovani in canottiera che correvano come
se avessero scippato una vecchia. Ecco infatti, dopo qualche secondo, comparire
una donna con la pelle avvizzita che ruggiva come un leone. Sul marciapiede, un
tizio dall’aria ubriaca aiutava un altro a rialzarsi.
Entrato
in un bar, Michael si mise a sedere al bancone accanto ad un uomo. Era un uomo
più anziano di lui, che gli rassomigliava in maniera incredibile. Il vecchio si
voltò verso di lui come verso il figlio che non vedeva da molti anni.
Purtroppo, però, non erano parenti. Finalmente, un uomo trasandato, con la
giacca sdrucita e una scarpa slacciata, gli poggiò una mano sulla spalla. E’
strano come certi visi possano riempirsi di pieghe a quel modo. Non si tratta
di rughe, ma indizi, di una vita non proprio passata tra spassi di prim’ordine
“Offrimi
da bere.”
“Sei
in ritardo elegantone, non facciamo in tempo.”
“Abbiamo
tutto il tempo che vogliamo.”
“Tu,
forse, ma io ha una paura ladra, e voglio farla finita presto con questa
storia.”
“Se
mi metti fretta, poi il lavoro non mi viene bene.”
I
due erano usciti dal bar.
“Che
hai da ridere?! Non avevi detto che avevi paura?!”
“Lo
sai che sono scemo. O forse farmi una risata è il modo migliore che riesco a
trovare per vincere la fifa. Dai, alta moda, muoviamoci!”
Lo
stilista si carezzò la barba sfatta, poi estrasse l’arma.
“Fallo!
Hai detto che sei il migliore! Uccidimi.”
Ma
quello non capiva. E chiese: “Perché?”
“Mi
sento solo.”
Era
un’inquietudine che da tempo aveva cessato di essere normale.
A
periodi tutt’altro che regolari le tenebre s’impossessavano del suo cuore,
trasformando le giornate in un inferno che andava e veniva, che relegava i
momenti di sorriso e di reale gioia a sporadiche e sempre meno durevoli
apparizioni. Lui si era così deciso a porre fine a quella lunga marcia verso il
completo logoramento dei suoi nervi, e la medicina portava il nome morte. Di
qualunque tipo, in qualsiasi forma fosse arrivata, sarebbe stata accolta come
un angelo salvatore. Dopo una sincera riflessione con se stesso, era giunto
però alla conclusione che sapeva da tempo: la morte non voleva saperne di
arrivare da sola e mai lui avrebbe avuto il coraggio di ammazzarsi. Stabilì
così di utilizzare i soldi delle vendite del suo ultimo libro in qualcosa che
fosse più efficace e decisivo delle solite decine di sedute di psicoterapia;
assoldare un killer, perché lo uccidesse.
E’
mostruoso, ma fin dalla prima volta che accarezzò quest’idea uno strano senso
di liberazione lo investì, come se mille macigni che gravavano sul suo cuore si
fossero d’un tratto disintegrati. Esplosi, distrutti, in milioni, miliardi di
pezzi. Chissà se Krizia era davvero il migliore nel suo campo, fatto sta che
parve agire con molta professionalità: chiacchierò qualche minuto, quanto bastò
che Michi si distraesse e pensasse ad altro, poi appena lo vide voltato... il
buio.
L’eterno
riposo dona a loro o signore che passeggiate con i vostri cagnolini senza accorgervi
di un uomo che disteso a pochi passi sul marciapiede fa l’imitazione di
Leonardo da Vinci, Oscar Wilde e Winston Churchill, morti tutti quanti anche
loro.
Michi
era là, steso, morto, stecchito, sparato, pugnalato, impiccato, ghigliottinato,
insomma morto. Ma qualcosa non andava. Michi pensava. Riguardando la sua vita
passata a raccontare le storie degli altri, non sarebbe apparsa una cosa tanto
strana qualche ora prima. Ma in quel momento, ora che Michi era morto, il fatto
che stesse pensando forse un po’ strano lo era.
Non
che uno voglia andare a cercare per forza qualcosa che non va, l’ago in un
pagliaio fatto di peli nell’uovo di Colombo che è morto pure lui. (Una
digressione del cavolo, d’accordo, anzi una stronzata bella e buona. Ma tanto
che fretta c’è. Tanto quello ormai era morto).
Se
uno è morto e pensa, qualcosina di strano in effetti c’è.
Forse
Michi non stava davvero pensando, forse erano i suoi pensieri prima di morire,
che, fulminati dal killer, erano rimasti nella testa del cadavere senza avere
il tempo di uscire. O forse stava sognando, chi lo dice che i morti non possono
sognare. Fatto sta che c’era un’immagine, un fotogramma, un particolare che già
quando era vivo ronzava nella sua testa. Una donna. O meglio, una donna che non
conosceva. O meglio ancora il particolare di una donna che non conosceva. Un
tratto del collo che comprende l’orecchio, l’attaccatura dei capelli e una
porzione di guancia. Tutto lì, niente altro, come se fosse il pezzo di un
puzzle; il resto era nero, sfuocato, l’unica cosa che si distingueva bene era
quel tratto di collo.
“Che
pensiero del cavolo.” disse fra sé e sé rialzandosi.
Proprio
così. Michi era morto. E pensava. E si era messo a sedere. Un momento, un
momento, perché tutt’a un tratto gli venivano in mente le storie di fantasmi
che leggeva da bambino?! Che diavolo o che Dio gli stava succedendo?! Non che
si aspettasse la noiosa quiete del paradiso e nemmeno l’allegra baldoria dei
diavoli infernali, ma quella stradina sudicia non era fra le dieci più belle
cose che avrebbe voluto vedere da morto.
Uscito
da quel vicolo buio, ci mancò poco che una macchina in strada lo investisse;
non era certo la prima volta, ma quella fu la prima volta che non si arrabbiò.
“Ti
capisco sai, dopotutto non puoi vedermi! Sembra di essere in quel film: chissà
se adesso passo anche attraverso le cose:”
Si
era messo in mezzo alla strada, allargando le braccia, cercando un frontale con
la prima auto di passaggio. Chiuse gli occhi. E aspettò. Ma non arrivava
nessuno. A venti isolati di distanza una Fiat 747 della British Airways
avanzava con una certa fretta. 20 secondi dopo era ferma, a pochi millimetri da
Michi, dopo una frenata di 16 metri. Michi non conosceva tutte le parolacce che
l’aviatore della macchina urlò: pensò soltanto a come diavolo avesse fatto a
vederlo. Poi si voltò, e vide un pastore tedesco e gentile signora che
zampettavano in mezzo alla strada come se niente fosse accaduto; quando già la
Fiat era tornata sulla rampa di lancio, Michi era sul marciapiede che cercava
di accarezzare i due cani che fuggivano però verso le colline. Fu solamente a
quel punto che il fantasma Michi realizzò che cosa ci fosse di strano nel mondo
intorno a lui. Le strade, i lampioni, i semafori, erano ancora al loro posto.
Le strade erano sudicie, i lampioni mezzi rotti e i semafori non funzionavano,
ma erano al loro posto. Non c’era nulla di strano nemmeno nei cani o nel
vecchietto che tossiva come una locomotiva. Neanche nell’uomo che passeggiava
solitario con il suo giornale. Neppure nel bambino che teneva per mano la mamma
davanti alla vetrina della giocattoleria.
In
lui no, ma in sua mamma qualcosa sì. In lei e in tutte le donne presenti che
lui poteva vedere in quella zona. Erano nude. Tutte nude. Tutte quante. Pareva
di avere un paio di quegli occhialini di plastica a raggi più o meno x di cui
c’è la pubblicità sulle riviste di serie B. Oppure sembrava di essere in quella
pubblicità dove per strada la gente cammina e gli unici vestiti sono le scarpe.
Solo che là non c’erano neanche quelle. I maschi erano vestiti e le donne no,
come nei sogni di ogni maniaco sessuale militante. Tutte erano perfettamente a
loro agio: conversavano, facevano la spesa, camminavano accanto ai loro
innocenti bambini e gli uomini le guardavano normalmente. Solo che erano nude.
“Dio
mio, nessun fantasma ritorna dopo morto, e ci credo. Quando si muore il premio
è che le donne sono tutte quante svestite!
Dio
mio.
Ti
ringrazio.”
Sentiva
che i suoi ormoni spettrali gli stavano salendo alla testa, così cercò di non
guardare altra cosa che le sue scarpe mentre camminava via da quella periferia
in cerca di un posto un po’ più tranquillo dove poter riflettere. Mentre
avanzava a quel modo, ripiegato su se stesso, giunsero al suo orecchio dei
pezzi di discorsi di coloro che si trovavano a passare da quelle parti.
Frasi
importantissime e frasi inutili, parole ripetute chissà quante volte. Già.
Chissà
quante parole sono state pronunciate dall’inizio dei tempi. Diciamo
cinquantamila megafantastiliardi. A queste togliamo tutte quelle ripetute, i
“Non ho capito scusa puoi ridirmelo”, quelle di circostanza che sono sempre le
stesse. Diciamo ottocentomila stramiliardi. Poi consideriamo le sciocchezze, le
parolacce, le bestemmie, le prediche delle suore stupide alle elementari, le
offese, le battute che non fanno ridere, due milioni di miliardi. Le
esplosioni, i rumori molesti, le pallottole sparate, le urla: almeno un
triliardo. Insieme tutte quante fanno almeno cinquecento milioni di miliardi di
attimi rubati al silenzio. Quei pensieri non avevano un gran senso, servivano
soltanto a guadagnare tempo, a non sollevare la testa e vedere tutto quel ben
di diavolo che popolava noncurante la città. Arrivato finalmente alla
solitudine alzò la testa e superato un cancello Michi si ritrovò immerso nella
quiete di un parco.
“Non
c’ero mai stato qui; dev’essere una di quelle zone poco conosciute della
periferia.” Talmente poco conosciute che infatti non c’era un’anima viva.
Neanche
Michi era un’anima viva, ma questa è un’altra faccenda. Comunque sia, dovette
superare un lungo viottolo di ghiaia e delle immense siepi prima di giungere ad
una panchina dove era seduto un vecchio uomo. Michi gli corse incontro,
cercando di farsi notare, ma l’uomo con lo sguardo perso nel vuoto non diede
cenno di essersi accorto della sua presenza. Fu così che Michi si allontanò
verso il lago dove nuotavano le anatre, e, soprattutto, i paperi.
“Ecco
lo sapevo. La banda Bassotti ha rapinato ancora una volta il deposito dello zio
Paperone. Devo informare Topolino e il Comandante Basettoni.”
Michi
ascoltò queste parole da dietro la siepe, rabbrividendo.
“Prima
le donne nude, ora i paperi personaggi di Walt Disney! Come diavolo andrà a
finire?”
Quando
finalmente uscì fuori, vide un uomo vestito di un pigiama colorato, dello
stesso colore di quello del vecchio sulla panchina.
“Ehi,
hai visto i miei nipotini?” disse quello tenendo in braccio un papero del lago.
“Donald!
Donald! Dove sei?”
“Donald?!”
fece Michi che si girò, e vide a pochi passi da se’ una donna davvero molto
bella. Era vestita, con grosso disappunto di Michi, ed era vestita da
infermiera.
“Ah,
Donald, sei ... mi scusi” fece lei rivolta a Michi. “Le stava dando fastidio?”
“No,
no. Tutt’altro. Ma lei può vedermi?”
“Si
sente bene?”
“Non
molto.”
“E’
venuto qui a trovare un parente?”
“Io...Io...No.
Perché?”
“Perché
questo è un ospedale.”
“Un
ospedale!”
“Una
clinica psichiatrica. Vede, Donald è uno dei nostri pazienti. E’ convinto di
essere Donald Duck, così passa intere giornate qua al lago con le anatre.
Quello là invece sulla panchina è il signor Riccardi: soffre di una disfunzione
neurale che non permette al suo cervello di elaborare i dati che i suoi sensi
immagazzinano. Vede la gente, ma è come se non vedesse le persone, perché non
si accorge di loro. E invece lei è...”
“Michael
Capitale. Sono uno scrittore.”
“Complimenti.
Io sono Chiara Lombardi, sono un’infermiera, qui. Lei deve essersi perso,
vero?”
“Già.
Più o meno.”
“Senta,
perché non mi dà una mano col signor Riccardi e con Donald, è quasi ora di cena
e dobbiamo rientrare in istituto. Venga, allunghi la mano e accompagniamoli...
Ma no, non prenda per mano me, è il signor Donald che... ok, lasci perdere, va
bene anche così.”
Lui
sapeva bene che stava facendo la parte dell’idiota, ma non gli importava.
Nel
raggio di pochi secondi aveva scoperto di non essere morto e che esisteva una
donna che non aveva bisogno di spogliarsi nuda per essere attraente. Tornò
molte volte là, alla clinica psichiatrica, a contatto con la realtà inquieta e
solitaria di malati emarginati dal mondo.
“A
volte vorrei prendere un ombrellone, un’astronave e poi andare sul sole a
mettermi all’ombra!” Era una discussione tipo tra Michi e Donald. E lui, Michi,
si divertiva. Stava ore e ore ad ascoltare quei discorsi, perché in fondo, uno
come lui che non aveva niente più da perdere, forse aveva qualcosa da dare alla
sofferenza e alla solitudine di persone che vagano nella regione sconosciuta
dell’incoscienza tra la vita reale e il dolore.
Ma
andiamo, però, chi voleva prendere in giro...
Il
vero motivo delle ore passate là, in quel posto dimenticato da Dio e troppo
terribile anche per il diavolo era Lei. Chiara. L’infermiera che aveva
rinunciato ad una brillante carriera di primario chirurgo per dedicarsi alle
sofferenze altrui senza i compromessi del denaro. Bla bla.
Anche
se Chiara di mestiere avesse fatto la rapinatrice di banche, ci sarebbe andato
lo stesso. Per vederla, per sentirla parlare della sua passione per la poesia,
la letteratura, la musica; per guardare quanto era bella, difficile e
complicata. Una grande forza, una ricchezza d’energia racchiusa da un abbraccio
d’insicurezza e fragilità, uno scrigno che la sua immaginazione aveva
costruito, che serviva a proteggerla dagli schiaffi che la vita ogni tanto si
diverte a dare.
Un
giorno Michi si decise a sedere sulla panchina dove lei riposava prima di
ricominciare il turno e provò a baciarla.
Saranno
stati i capelli castani lisci e lunghi che il vento faceva sembrare dipinti
dalle stesse foglie d’autunno. O forse gli occhi azzurri che erano così chiari
e luminosi da poterci guardare attraverso come se il resto del corpo fosse
stato quello di uno spettro. Ma come poteva uno spettro avere quelle curve,
essere così tremendamente sensuale, così… va bene, non importa. Michi si
avvicinò, e quando lei si ritrasse lui provò un grande imbarazzo, che svanì
subito non appena lei, leggermente rossa in viso, sorrise, e si aggiustò con la
mano i capelli dietro all’orecchio. Fu in quel momento che Michi vide il suo
collo, o meglio il suo orecchio: o meglio ancora una porzione di guancia. O
meglio di tutti, le tre cose insieme, la visione di quel pezzo di puzzle che
tormentava i suoi sonni e che ora si ricomponeva al resto dei pezzi. Per un
puzzle così, avrebbe pagato anche un miliardo di sterline, ed ora era lì, davanti
ai suoi occhi, libero da ogni offuscamento.
“No,
no” balbettò lui “volevo soltanto baciarti sulla guancia in segno d’amicizia.”
“Ah”
disse lei “certo, l’avevo capito.”
Lui
mentiva. E anche lei. Ma lui di più.
Mentiva
spudoratamente, il più grande bugiardo che sia mai esistito: più bugiardo di un
esercito di bugiardi mascherati da Pinocchio il giorno del primo d’aprile.
In
quel momento, lui parlava e lei ascoltava. E le cose che lui diceva non erano
nemmeno intelligenti. Ma quell’istante era lo stesso importante, perché aveva
capito che lui l’amava. Che l’incubo era finito, che un raggio di luce era
entrato dagli occhi di lei direttamente nel suo cuore che finalmente cessava di
sprofondare. L’amava.
E
l’amore non aveva bisogno degli occhiali a raggi X dei giornaletti, era là,
chiaro e meraviglioso. Come lei. Chiara e meravigliosa; come un volo di luce.
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