domenica 30 giugno 2019

IL VOLO DELLA LUCE di Francesco Barilli


Suite N° 920 dell’hotel Machiavelli. Fine della chiacchierata. Divanetto elegante, ma scomodissimo, dello stesso colore di una moquette dove avevano appena passato la falciatrice. Alla parete una stampa di quei pittori di cui tutti giurano di essere stati all’ultima mostra: il quadro poteva averlo dipinto il fattorino dell’ascensore.
“Senti, scrittore, hai ancora qualche minuto da dedicarmi?”
“Tempo scaduto, Monica, ho un appuntamento.”
“Con chi?”
“Questa domanda me la rivolge Monica la mia amica o Monica la giornalista pettegola?”
“Monica la tua amica pettegola.”
“Ci vediamo testona, stammi bene.”
Michael uscì dall’albergo. Accanto al marciapiede una grossa macchina americana con la portiera aperta sembrava aspettarlo. Sembrava, ma non era così. C’era una certa animazione per strada. Qualche ragazzina di al massimo quindici anni ancheggiava come se ne avesse trenta. Sulla faccia, qualche etto di trucco. I vestiti li avevano fregati alle sorelle più grandi, i gioielli, voluminosi, erano naturalmente bigiotteria; una di loro pareva avesse due scimmie appese agli orecchi. Parlavano a voce alta, e nonostante le inevitabili sciocchezze che condivano le loro chiacchiere, c’era vita nei loro sorrisi. Freschezza, innocenza. Magari nessuna di loro avrebbe fatto la modella da grande, ma erano lo stesso bellissime. Dall’altro lato del marciapiede, un gruppo di signore di mezz’età era a passeggio. Camminavano come se avessero avuto trent’anni di meno; sul viso, qualche chilo di fondotinta. Michael proseguì dritto fino alla piazza, dove accanto al ridicolo monumento equestre c’era una donna vestita in modo elegante. Musetto carino, minuta, belle forme. Lui non degnò d’uno sguardo il monumento, sulla donna ci fece un pensierino, ma continuò lo stesso il suo cammino. Quasi si scontrò contro due giovani in canottiera che correvano come se avessero scippato una vecchia. Ecco infatti, dopo qualche secondo, comparire una donna con la pelle avvizzita che ruggiva come un leone. Sul marciapiede, un tizio dall’aria ubriaca aiutava un altro a rialzarsi.
Entrato in un bar, Michael si mise a sedere al bancone accanto ad un uomo. Era un uomo più anziano di lui, che gli rassomigliava in maniera incredibile. Il vecchio si voltò verso di lui come verso il figlio che non vedeva da molti anni. Purtroppo, però, non erano parenti. Finalmente, un uomo trasandato, con la giacca sdrucita e una scarpa slacciata, gli poggiò una mano sulla spalla. E’ strano come certi visi possano riempirsi di pieghe a quel modo. Non si tratta di rughe, ma indizi, di una vita non proprio passata tra spassi di prim’ordine
“Offrimi da bere.”
“Sei in ritardo elegantone, non facciamo in tempo.”
“Abbiamo tutto il tempo che vogliamo.”
“Tu, forse, ma io ha una paura ladra, e voglio farla finita presto con questa storia.”
“Se mi metti fretta, poi il lavoro non mi viene bene.”
I due erano usciti dal bar.
“Che hai da ridere?! Non avevi detto che avevi paura?!”
“Lo sai che sono scemo. O forse farmi una risata è il modo migliore che riesco a trovare per vincere la fifa. Dai, alta moda, muoviamoci!”
Lo stilista si carezzò la barba sfatta, poi estrasse l’arma.
“Fallo! Hai detto che sei il migliore! Uccidimi.”
Ma quello non capiva. E chiese: “Perché?”
“Mi sento solo.”
Era un’inquietudine che da tempo aveva cessato di essere normale.
A periodi tutt’altro che regolari le tenebre s’impossessavano del suo cuore, trasformando le giornate in un inferno che andava e veniva, che relegava i momenti di sorriso e di reale gioia a sporadiche e sempre meno durevoli apparizioni. Lui si era così deciso a porre fine a quella lunga marcia verso il completo logoramento dei suoi nervi, e la medicina portava il nome morte. Di qualunque tipo, in qualsiasi forma fosse arrivata, sarebbe stata accolta come un angelo salvatore. Dopo una sincera riflessione con se stesso, era giunto però alla conclusione che sapeva da tempo: la morte non voleva saperne di arrivare da sola e mai lui avrebbe avuto il coraggio di ammazzarsi. Stabilì così di utilizzare i soldi delle vendite del suo ultimo libro in qualcosa che fosse più efficace e decisivo delle solite decine di sedute di psicoterapia; assoldare un killer, perché lo uccidesse.
E’ mostruoso, ma fin dalla prima volta che accarezzò quest’idea uno strano senso di liberazione lo investì, come se mille macigni che gravavano sul suo cuore si fossero d’un tratto disintegrati. Esplosi, distrutti, in milioni, miliardi di pezzi. Chissà se Krizia era davvero il migliore nel suo campo, fatto sta che parve agire con molta professionalità: chiacchierò qualche minuto, quanto bastò che Michi si distraesse e pensasse ad altro, poi appena lo vide voltato... il buio.
L’eterno riposo dona a loro o signore che passeggiate con i vostri cagnolini senza accorgervi di un uomo che disteso a pochi passi sul marciapiede fa l’imitazione di Leonardo da Vinci, Oscar Wilde e Winston Churchill, morti tutti quanti anche loro.
Michi era là, steso, morto, stecchito, sparato, pugnalato, impiccato, ghigliottinato, insomma morto. Ma qualcosa non andava. Michi pensava. Riguardando la sua vita passata a raccontare le storie degli altri, non sarebbe apparsa una cosa tanto strana qualche ora prima. Ma in quel momento, ora che Michi era morto, il fatto che stesse pensando forse un po’ strano lo era.
Non che uno voglia andare a cercare per forza qualcosa che non va, l’ago in un pagliaio fatto di peli nell’uovo di Colombo che è morto pure lui. (Una digressione del cavolo, d’accordo, anzi una stronzata bella e buona. Ma tanto che fretta c’è. Tanto quello ormai era morto).
Se uno è morto e pensa, qualcosina di strano in effetti c’è.
Forse Michi non stava davvero pensando, forse erano i suoi pensieri prima di morire, che, fulminati dal killer, erano rimasti nella testa del cadavere senza avere il tempo di uscire. O forse stava sognando, chi lo dice che i morti non possono sognare. Fatto sta che c’era un’immagine, un fotogramma, un particolare che già quando era vivo ronzava nella sua testa. Una donna. O meglio, una donna che non conosceva. O meglio ancora il particolare di una donna che non conosceva. Un tratto del collo che comprende l’orecchio, l’attaccatura dei capelli e una porzione di guancia. Tutto lì, niente altro, come se fosse il pezzo di un puzzle; il resto era nero, sfuocato, l’unica cosa che si distingueva bene era quel tratto di collo.
“Che pensiero del cavolo.” disse fra sé e sé rialzandosi.
Proprio così. Michi era morto. E pensava. E si era messo a sedere. Un momento, un momento, perché tutt’a un tratto gli venivano in mente le storie di fantasmi che leggeva da bambino?! Che diavolo o che Dio gli stava succedendo?! Non che si aspettasse la noiosa quiete del paradiso e nemmeno l’allegra baldoria dei diavoli infernali, ma quella stradina sudicia non era fra le dieci più belle cose che avrebbe voluto vedere da morto.
Uscito da quel vicolo buio, ci mancò poco che una macchina in strada lo investisse; non era certo la prima volta, ma quella fu la prima volta che non si arrabbiò.
“Ti capisco sai, dopotutto non puoi vedermi! Sembra di essere in quel film: chissà se adesso passo anche attraverso le cose:”
Si era messo in mezzo alla strada, allargando le braccia, cercando un frontale con la prima auto di passaggio. Chiuse gli occhi. E aspettò. Ma non arrivava nessuno. A venti isolati di distanza una Fiat 747 della British Airways avanzava con una certa fretta. 20 secondi dopo era ferma, a pochi millimetri da Michi, dopo una frenata di 16 metri. Michi non conosceva tutte le parolacce che l’aviatore della macchina urlò: pensò soltanto a come diavolo avesse fatto a vederlo. Poi si voltò, e vide un pastore tedesco e gentile signora che zampettavano in mezzo alla strada come se niente fosse accaduto; quando già la Fiat era tornata sulla rampa di lancio, Michi era sul marciapiede che cercava di accarezzare i due cani che fuggivano però verso le colline. Fu solamente a quel punto che il fantasma Michi realizzò che cosa ci fosse di strano nel mondo intorno a lui. Le strade, i lampioni, i semafori, erano ancora al loro posto. Le strade erano sudicie, i lampioni mezzi rotti e i semafori non funzionavano, ma erano al loro posto. Non c’era nulla di strano nemmeno nei cani o nel vecchietto che tossiva come una locomotiva. Neanche nell’uomo che passeggiava solitario con il suo giornale. Neppure nel bambino che teneva per mano la mamma davanti alla vetrina della giocattoleria.
In lui no, ma in sua mamma qualcosa sì. In lei e in tutte le donne presenti che lui poteva vedere in quella zona. Erano nude. Tutte nude. Tutte quante. Pareva di avere un paio di quegli occhialini di plastica a raggi più o meno x di cui c’è la pubblicità sulle riviste di serie B. Oppure sembrava di essere in quella pubblicità dove per strada la gente cammina e gli unici vestiti sono le scarpe. Solo che là non c’erano neanche quelle. I maschi erano vestiti e le donne no, come nei sogni di ogni maniaco sessuale militante. Tutte erano perfettamente a loro agio: conversavano, facevano la spesa, camminavano accanto ai loro innocenti bambini e gli uomini le guardavano normalmente. Solo che erano nude.
“Dio mio, nessun fantasma ritorna dopo morto, e ci credo. Quando si muore il premio è che le donne sono tutte quante svestite!
Dio mio.
Ti ringrazio.”
Sentiva che i suoi ormoni spettrali gli stavano salendo alla testa, così cercò di non guardare altra cosa che le sue scarpe mentre camminava via da quella periferia in cerca di un posto un po’ più tranquillo dove poter riflettere. Mentre avanzava a quel modo, ripiegato su se stesso, giunsero al suo orecchio dei pezzi di discorsi di coloro che si trovavano a passare da quelle parti.
Frasi importantissime e frasi inutili, parole ripetute chissà quante volte. Già.
Chissà quante parole sono state pronunciate dall’inizio dei tempi. Diciamo cinquantamila megafantastiliardi. A queste togliamo tutte quelle ripetute, i “Non ho capito scusa puoi ridirmelo”, quelle di circostanza che sono sempre le stesse. Diciamo ottocentomila stramiliardi. Poi consideriamo le sciocchezze, le parolacce, le bestemmie, le prediche delle suore stupide alle elementari, le offese, le battute che non fanno ridere, due milioni di miliardi. Le esplosioni, i rumori molesti, le pallottole sparate, le urla: almeno un triliardo. Insieme tutte quante fanno almeno cinquecento milioni di miliardi di attimi rubati al silenzio. Quei pensieri non avevano un gran senso, servivano soltanto a guadagnare tempo, a non sollevare la testa e vedere tutto quel ben di diavolo che popolava noncurante la città. Arrivato finalmente alla solitudine alzò la testa e superato un cancello Michi si ritrovò immerso nella quiete di un parco.
“Non c’ero mai stato qui; dev’essere una di quelle zone poco conosciute della periferia.” Talmente poco conosciute che infatti non c’era un’anima viva.
Neanche Michi era un’anima viva, ma questa è un’altra faccenda. Comunque sia, dovette superare un lungo viottolo di ghiaia e delle immense siepi prima di giungere ad una panchina dove era seduto un vecchio uomo. Michi gli corse incontro, cercando di farsi notare, ma l’uomo con lo sguardo perso nel vuoto non diede cenno di essersi accorto della sua presenza. Fu così che Michi si allontanò verso il lago dove nuotavano le anatre, e, soprattutto, i paperi.
“Ecco lo sapevo. La banda Bassotti ha rapinato ancora una volta il deposito dello zio Paperone. Devo informare Topolino e il Comandante Basettoni.”
Michi ascoltò queste parole da dietro la siepe, rabbrividendo.
“Prima le donne nude, ora i paperi personaggi di Walt Disney! Come diavolo andrà a finire?”
Quando finalmente uscì fuori, vide un uomo vestito di un pigiama colorato, dello stesso colore di quello del vecchio sulla panchina.
“Ehi, hai visto i miei nipotini?” disse quello tenendo in braccio un papero del lago.
“Donald! Donald! Dove sei?”
“Donald?!” fece Michi che si girò, e vide a pochi passi da se’ una donna davvero molto bella. Era vestita, con grosso disappunto di Michi, ed era vestita da infermiera.
“Ah, Donald, sei ... mi scusi” fece lei rivolta a Michi. “Le stava dando fastidio?”
“No, no. Tutt’altro. Ma lei può vedermi?”
“Si sente bene?”
“Non molto.”
“E’ venuto qui a trovare un parente?”
“Io...Io...No. Perché?”
“Perché questo è un ospedale.”
“Un ospedale!”
“Una clinica psichiatrica. Vede, Donald è uno dei nostri pazienti. E’ convinto di essere Donald Duck, così passa intere giornate qua al lago con le anatre. Quello là invece sulla panchina è il signor Riccardi: soffre di una disfunzione neurale che non permette al suo cervello di elaborare i dati che i suoi sensi immagazzinano. Vede la gente, ma è come se non vedesse le persone, perché non si accorge di loro. E invece lei è...”
“Michael Capitale.  Sono uno scrittore.”
“Complimenti. Io sono Chiara Lombardi, sono un’infermiera, qui. Lei deve essersi perso, vero?”
“Già. Più o meno.”
“Senta, perché non mi dà una mano col signor Riccardi e con Donald, è quasi ora di cena e dobbiamo rientrare in istituto. Venga, allunghi la mano e accompagniamoli... Ma no, non prenda per mano me, è il signor Donald che... ok, lasci perdere, va bene anche così.”
Lui sapeva bene che stava facendo la parte dell’idiota, ma non gli importava.
Nel raggio di pochi secondi aveva scoperto di non essere morto e che esisteva una donna che non aveva bisogno di spogliarsi nuda per essere attraente. Tornò molte volte là, alla clinica psichiatrica, a contatto con la realtà inquieta e solitaria di malati emarginati dal mondo.
“A volte vorrei prendere un ombrellone, un’astronave e poi andare sul sole a mettermi all’ombra!” Era una discussione tipo tra Michi e Donald. E lui, Michi, si divertiva. Stava ore e ore ad ascoltare quei discorsi, perché in fondo, uno come lui che non aveva niente più da perdere, forse aveva qualcosa da dare alla sofferenza e alla solitudine di persone che vagano nella regione sconosciuta dell’incoscienza tra la vita reale e il dolore.
Ma andiamo, però, chi voleva prendere in giro...
Il vero motivo delle ore passate là, in quel posto dimenticato da Dio e troppo terribile anche per il diavolo era Lei. Chiara. L’infermiera che aveva rinunciato ad una brillante carriera di primario chirurgo per dedicarsi alle sofferenze altrui senza i compromessi del denaro. Bla bla.
Anche se Chiara di mestiere avesse fatto la rapinatrice di banche, ci sarebbe andato lo stesso. Per vederla, per sentirla parlare della sua passione per la poesia, la letteratura, la musica; per guardare quanto era bella, difficile e complicata. Una grande forza, una ricchezza d’energia racchiusa da un abbraccio d’insicurezza e fragilità, uno scrigno che la sua immaginazione aveva costruito, che serviva a proteggerla dagli schiaffi che la vita ogni tanto si diverte a dare.
Un giorno Michi si decise a sedere sulla panchina dove lei riposava prima di ricominciare il turno e provò a baciarla.
Saranno stati i capelli castani lisci e lunghi che il vento faceva sembrare dipinti dalle stesse foglie d’autunno. O forse gli occhi azzurri che erano così chiari e luminosi da poterci guardare attraverso come se il resto del corpo fosse stato quello di uno spettro. Ma come poteva uno spettro avere quelle curve, essere così tremendamente sensuale, così… va bene, non importa. Michi si avvicinò, e quando lei si ritrasse lui provò un grande imbarazzo, che svanì subito non appena lei, leggermente rossa in viso, sorrise, e si aggiustò con la mano i capelli dietro all’orecchio. Fu in quel momento che Michi vide il suo collo, o meglio il suo orecchio: o meglio ancora una porzione di guancia. O meglio di tutti, le tre cose insieme, la visione di quel pezzo di puzzle che tormentava i suoi sonni e che ora si ricomponeva al resto dei pezzi. Per un puzzle così, avrebbe pagato anche un miliardo di sterline, ed ora era lì, davanti ai suoi occhi, libero da ogni offuscamento.
“No, no” balbettò lui “volevo soltanto baciarti sulla guancia in segno d’amicizia.”
“Ah” disse lei “certo, l’avevo capito.”
Lui mentiva. E anche lei. Ma lui di più.
Mentiva spudoratamente, il più grande bugiardo che sia mai esistito: più bugiardo di un esercito di bugiardi mascherati da Pinocchio il giorno del primo d’aprile.
In quel momento, lui parlava e lei ascoltava. E le cose che lui diceva non erano nemmeno intelligenti. Ma quell’istante era lo stesso importante, perché aveva capito che lui l’amava. Che l’incubo era finito, che un raggio di luce era entrato dagli occhi di lei direttamente nel suo cuore che finalmente cessava di sprofondare. L’amava.
E l’amore non aveva bisogno degli occhiali a raggi X dei giornaletti, era là, chiaro e meraviglioso. Come lei. Chiara e meravigliosa; come un volo di luce.

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