giovedì 31 ottobre 2019

L’AUTOSFOTTISTA di Paola Curia


“Mi si sta gelando il pollice”.       
“Abbassalo, non credo ci siano anime sveglie in giro a quest’ora.”
“Io non lo abbasso”.
“Come vuoi, io proseguo a piedi”.
Geremia provò a riscaldare il dito intirizzito dal gelo con l’alito caldo che ancora sapeva di vodka e noccioline.
“Ma dove vai, aspetta, qualcuno passerà”.
“Non m’importa, io vado”.
 Così dicendo Davide inspirò profondamente il fumo candido dell’ennesima Camel.
“Sapevo che non sarebbe stata una buona idea. Adesso ci troviamo nel bel mezzo del nulla, alle due di notte e come se non bastasse quest’umidità mi fa scoppiare la testa... ma ora che cavolo fai?”.
“Chiudi il becco e guarda come si ottiene un passaggio fino in città”.
In quel preciso istante una vettura sfrecciò lungo la carreggiata. Il fiume d’acqua piovana mista alla fanghiglia marrone della neve mezza sciolta, di colpo si aprì al passaggio delle quattro ruote motrici, investendo in pieno i due giovanotti.
“Ehi, brutto decerebrato, hai visto cosa hai combinato!”.
Davide urlò a squarciagola contro la vettura rossa e quel poco di voce che gli era rimasta aggrappata alle corde vocali, dopo la festa dei diciotto anni della sua quasi-fidanzata, venne di colpo inghiottita nel buco nero della faringe.
 “Tu sei impazzito, se ti sente è la fine”.
Geremia era terrorizzato, il sasso colpì talmente forte il parabrezza posteriore che il vetro si sminuzzò in centinaia di frammenti che presero a cadere all’interno dell’abitacolo dove pareva esserci un disco party in corso. L’auto inchiodò rischiando di slittare sull’asfalto bagnato.
“Io ti ammazzo!”.
Le parole proferite dal conducente sceso dal veicolo, non promettevano nulla di buono e passo dopo passo, i tre protagonisti ebbero un incontro molto ravvicinato. Geremia fece tre saltelli indietro e tirò su il bavero del cappotto scuro, quello elegante, lo stesso che sua madre lo costringeva a mettere per le grandi occasioni e quella della festa dell’unica ragazza che forse, era interessata al suo figliolo era un’occasione importantissima…
“Siamo nella merda fino al collo adesso”.
L’uomo iniziò ad avanzare.
Davide sussurrò qualcosa al compagno che iniziava a dare segni di cedimento. L’urina tiepida sbucò solo dalla parte destra, il liquido giallognolo defluì lungo tutta la gamba pelosa, fino a penetrare, in uno stillicidio, dentro il mocassino semilucido.
“Chiedo scusa signore, pensavo fosse mio padre”.
L’uomo si bloccò con aria incuriosita.
“Intendiamoci, quel bastardo di mio padre. L’auto è la stessa e se non fosse che non lo vedo da decenni, mi sentirei sicuro di dirle che sia proprio lei, ma le lascio il privilegio di farlo”.
L’uomo era giunto tanto vicino al giovane da poterne percepire l’alito caldo.
“Ma che fai, sfotti? Tu sei ubriaco, io ti denuncio”.
“Gerry racconta al signore la mia storia, Gerry…Geremia”.
Davide si voltò di scatto verso l’amico ipnotizzato dai lampeggianti che battevano il tempo di musica metal che, a tutto volume, squarciava il silenzio religioso di quella insolita notte.
“Sono anni che vado alla ricerca di qualcuno che abbia le sue caratteristiche, quelle di mio padre intendo. Allora, vediamo se ricordo i particolari”.
Davide socchiuse gli occhi fingendo di ricordare.
“Capelli chiari, baffi, neo sulla fronte ma…”, disse esaminando attentamente il volto dello sconosciuto, “allora tutto combacia, è lei! Ovviamente la certezza della paternità è tutta da avvalorare. Quindi, se mi parla un po’ del suo passato potrei crederci, potrebbe addirittura convincermi”.
Il ragazzo ponderava ad arte parole e gesti per confondere, all’occorrenza chiunque, e chi più di quel povero cristiano confuso e probabilmente assonato, poteva offrire loro un buon pretesto per un garbato raggiro.
“Tu sei matto, io ti frantumo le ossa”.
L'individuo era giunto tanto vicino al giovane da poterne percepire, nell’alito, l’odore di vodka e noccioline americane. I due si fissavano diritto negli occhi, nessuno osava abbassare lo sguardo.
“Aspetti buon uomo, mi dia almeno la possibilità di presentarmi: Davide Retari.”
Mentre lo diceva, il giovane, cercava di mettere a fuoco il logo stampato sul cartellino che lo sconosciuto portava su petto: ”R&G Coop-matricola 09056-Retari M.-”, sperando che la seconda lettere, che sembrava una o, fosse una e.
“Il mio cognome è Retari, che succede?”.
“Lo so, la mamma ha voluto che portassi il tuo!”.
“Non capisco! Ma chi Ramona? Lei me lo avrebbe detto”.
“Castana, occhi scuri tendenti al chiaro, bassa, ma nemmeno tanto alta e di bell’aspetto, complimenti, ottima scelta!”.
Davide fece la descrizione generica di una qualsiasi donna. Geremia era immobilizzato, l’ernia lombare, uscita in seguito al trasloco, gli costò tre mesi a letto e i dolori si amplificano con il freddo pungente.
 Davide, dal canto suo, aveva intuito che, l’imboccatura scelta, quella sorta d’indispensabile sfottò premeditato per uscire salvi da quel guaio, calzava a pennello.
“Dunque sei tu!”.
Il passaggio confidenziale gli procurò uno sguardo impietosito.
“Non è possibile, la storia finì molti anni fa”.
“Sì, so già tutto”. 
Qui, l’abile oratore, pensò bene di brandire il colpo finale.
“Ora è tardi papà, andiamo, hai bisogno di riposare”.
Il giovane con la destra afferrò la mano congelata di Geremia e con la sinistra si aggrappò al braccio muscoloso dell’ignara matricola 09056.
I tre entrarono in auto, la musica nell’abitacolo era ancora alta. Davide sedette accanto all’autista, Geremia occupò la porzione sgombra dai frammenti di vetro, del sedile posteriore. 
“Adesso dove vivete tu e Ramona?”.
“Io e la mamma abbiamo fittato un appartamento in centro, ti do le indicazioni così ci molli in piazza.”
“Lei sta bene?”.
“Sta benissimo, non ha un altro uomo, se è questo che vuoi sapere. Gerry sei sveglio?”.
Davide si voltò di scatto socchiudendo gli occhi che lacrimavano.
“Accosta qui, non hai mica una sigaretta? Non dirò nulla a mamma, tranquillo!”.
L’uomo tirò fuori un pacco di multifilter.
“Lo immaginavo, vedo che non hai perso il vizio. Gerry giù le chiappe dal sedile, forza, scendi. Grazie papà, posso chiamarti così, vero?“.
 L’uomo non fece in tempo a rispondere che i giovani si dileguarono.
“Mio figlio… ho un figlio… quello è mio figlio, il mio bambino!”.
Il tizio continuava a ripeterlo ad alta voce ma la musica metal all’interno dell’abitacolo era troppo forte perché avesse la possibilità di capirci davvero qualcosa.        

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