In una famiglia, il male di uno é il male di tutti.
Marilena lo capì all’età di diciassette anni. Si ricordava persino il momento
esatto. Il preciso istante in cui realizzò che il dolore transitorio non é mai
veramente transitorio e che il dolore permanente non é mai veramente
permanente. Entrambi cavalcano quella linea di confine che non li separa ma li
unisce. Li rende mali dello stesso male: il grande dolore riparabile e senza
rimedio.
Quella sera, Marilena tornò a casa, sulle spalle lo
zaino di scuola. Fra i capelli, la margherita colta nel ristretto spazio verde
di fianco al marciapiede. Era solita cantare, passeggiando. Non c’era giorno
che si dimenticasse l’mp3 che era riuscita a comprarsi con i centesimi risparmiati,
trovati per terra, vicino ai tombini, rubati dalle tasche del cappotto della
sorella, durante gli ultimi anni. Perciò, adesso, quell’oggetto inanimato
ricopriva un ruolo essenziale nella sua vita, un compagno di viaggio, un
dittatore d’emozioni, il padrone di tutti i suoi umori. La musica scandiva la
sua intera esistenza.
Marilena, quasi correndo - era ora di cena -
imboccò il vialetto che l’avrebbe condotta fino a casa. Poi vide parcheggiata
un’ambulanza. Nessuno vi era al suo interno. Non pensò a nulla. Si chiese solo
se quella sera avrebbero preso la pizza per cena. Continuò a camminare e dopo
qualche passo riuscì a notare la porta d’ingresso di casa sua semi-aperta. D’un
tratto le cose cambiarono e lei avanzò, con paura. Sulla soglia intravide suo
padre steso per terra, privo di sensi. Il dottore era alle prese con il
massaggio cardiaco, gli infermieri gli davano schiaffi, senza ritegno, sul
volto, con lo scopo di rianimare quell’anima stanca che stava sfuggendo,
malandrina, al volere degli altri. Marilena entrò e non disse nulla. Vide la
mano inerme del padre giacere, aperta, sul pavimento. Quella mano che l’aveva
aiutata ad alzarsi dopo una caduta in biciletta. Non la riconobbe: ora era solo
un pezzo di carne. Non vi era associato più nulla, non vi erano intenzioni, non
vi erano più gesti da compiere. Solo un pezzo di carne inerme. Come un sasso o
una sedia, era oggetto inanimato, che non dava carezze e non ne sapeva più
ricevere. Aveva perso tutto.
Gli occhi del padre, ora, chiusi, erano stati per
tutti quegli anni il suo specchio. Marilena lo aveva sempre creduto
invincibile. Lui le aveva insegnato la chiave per superare ogni cosa. Non aveva
mai pianto davanti a lei e, con i suoi comportamenti, le aveva fatto credere
che a tutto c’era sempre una soluzione. Maledetto il padre ed il momento in cui
capisci che sono tutte fesserie. L’amarezza della vita le si presentò come un
ceffone e lei, disarmata, rimpianse un’altra vita, quella in cui avrebbe saputo
come reagire. Quella in cui sarebbe stata preparata.
La madre e la sorella di Marilena giacevano intorno
al corpo del padre. Marilena, paralizzata, si mise gli auricolari, cambiò
canzone e alzò il volume al massimo. Cominciò a correre a perdifiato, uscì dal
vialetto dal quale era arrivata e risalì la strada che aveva percorso in
discesa, fino alla fermata dell’autobus dal quale era scesa mezz’ora prima.
Respirò a pieni polmoni. Le guance erano diventate
rosse, per la corsa, e la margherita doveva esserle caduta da qualche parte. Si
toccò i capelli e non la trovò più.
Con la lentezza di un vecchio cane, Marilena
cominciò a ripercorrere lo stesso tragittto. Una nuova canzone suonava nel suo
mp3. Guardò il cielo e pensò di essere una stella. Poi guardò quell’albero,
davanti a lei, cresciuto in una strada di solo cemento, e s’immaginò foglia di
quel ramo. Era tutto e non era nulla. Disperse il suo io nel mondo, come semi
nella terra, per proteggersi dal dolore che stava provando. Se era stella, se
era foglia, se era aria, se era lampo, non c’era spazio per un solo cuore.
Si perse, nuova, nell’aria della sera e
s’incamminò, di nuovo, verso casa.
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