giovedì 31 ottobre 2019

MALEDETTO IL PADRE di Valentina Casadei


In una famiglia, il male di uno é il male di tutti. Marilena lo capì all’età di diciassette anni. Si ricordava persino il momento esatto. Il preciso istante in cui realizzò che il dolore transitorio non é mai veramente transitorio e che il dolore permanente non é mai veramente permanente. Entrambi cavalcano quella linea di confine che non li separa ma li unisce. Li rende mali dello stesso male: il grande dolore riparabile e senza rimedio.
Quella sera, Marilena tornò a casa, sulle spalle lo zaino di scuola. Fra i capelli, la margherita colta nel ristretto spazio verde di fianco al marciapiede. Era solita cantare, passeggiando. Non c’era giorno che si dimenticasse l’mp3 che era riuscita a comprarsi con i centesimi risparmiati, trovati per terra, vicino ai tombini, rubati dalle tasche del cappotto della sorella, durante gli ultimi anni. Perciò, adesso, quell’oggetto inanimato ricopriva un ruolo essenziale nella sua vita, un compagno di viaggio, un dittatore d’emozioni, il padrone di tutti i suoi umori. La musica scandiva la sua intera esistenza.
Marilena, quasi correndo - era ora di cena - imboccò il vialetto che l’avrebbe condotta fino a casa. Poi vide parcheggiata un’ambulanza. Nessuno vi era al suo interno. Non pensò a nulla. Si chiese solo se quella sera avrebbero preso la pizza per cena. Continuò a camminare e dopo qualche passo riuscì a notare la porta d’ingresso di casa sua semi-aperta. D’un tratto le cose cambiarono e lei avanzò, con paura. Sulla soglia intravide suo padre steso per terra, privo di sensi. Il dottore era alle prese con il massaggio cardiaco, gli infermieri gli davano schiaffi, senza ritegno, sul volto, con lo scopo di rianimare quell’anima stanca che stava sfuggendo, malandrina, al volere degli altri. Marilena entrò e non disse nulla. Vide la mano inerme del padre giacere, aperta, sul pavimento. Quella mano che l’aveva aiutata ad alzarsi dopo una caduta in biciletta. Non la riconobbe: ora era solo un pezzo di carne. Non vi era associato più nulla, non vi erano intenzioni, non vi erano più gesti da compiere. Solo un pezzo di carne inerme. Come un sasso o una sedia, era oggetto inanimato, che non dava carezze e non ne sapeva più ricevere. Aveva perso tutto.
Gli occhi del padre, ora, chiusi, erano stati per tutti quegli anni il suo specchio. Marilena lo aveva sempre creduto invincibile. Lui le aveva insegnato la chiave per superare ogni cosa. Non aveva mai pianto davanti a lei e, con i suoi comportamenti, le aveva fatto credere che a tutto c’era sempre una soluzione. Maledetto il padre ed il momento in cui capisci che sono tutte fesserie. L’amarezza della vita le si presentò come un ceffone e lei, disarmata, rimpianse un’altra vita, quella in cui avrebbe saputo come reagire. Quella in cui sarebbe stata preparata.

La madre e la sorella di Marilena giacevano intorno al corpo del padre. Marilena, paralizzata, si mise gli auricolari, cambiò canzone e alzò il volume al massimo. Cominciò a correre a perdifiato, uscì dal vialetto dal quale era arrivata e risalì la strada che aveva percorso in discesa, fino alla fermata dell’autobus dal quale era scesa mezz’ora prima.

Respirò a pieni polmoni. Le guance erano diventate rosse, per la corsa, e la margherita doveva esserle caduta da qualche parte. Si toccò i capelli e non la trovò più.

Con la lentezza di un vecchio cane, Marilena cominciò a ripercorrere lo stesso tragittto. Una nuova canzone suonava nel suo mp3. Guardò il cielo e pensò di essere una stella. Poi guardò quell’albero, davanti a lei, cresciuto in una strada di solo cemento, e s’immaginò foglia di quel ramo. Era tutto e non era nulla. Disperse il suo io nel mondo, come semi nella terra, per proteggersi dal dolore che stava provando. Se era stella, se era foglia, se era aria, se era lampo, non c’era spazio per un solo cuore.

Si perse, nuova, nell’aria della sera e s’incamminò, di nuovo, verso casa.

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