“Perché
sai, le persone insoddisfatte per qualche motivo della loro vita, immaginano.
Quelle felici sono tragicamente prive di fantasia ed immancabilmente banali.
Quelle infelici lavorano instancabilmente di fantasia.
Poi
c’ero io che sognavo. E lì devi fare uno sforzo in più. Non è banale sognare.
Non è uno scorcio colorato e rumoroso che i passa per un attimo davanti agli
occhi. Devi amare una cosa per sognarla. Per averla immaginata e pensata così tante
volte, da averle dato corpo e consistenza, anche se solo per la tua mente,
anche se solo per te.
Sognare
è faticoso, è uno sforzo. Sognare è un atto d’amore.”
Ha
cominciato a piovere. Né tanto né poco. Le gocce disegnano sui vetri zampilli
di biglie trasparenti, piccole fontane dalla luce fioca. Considero il mio caffè
(che fa schifo) facendo andare per un attimo su e giù il cucchiaino e guardo il
suo cappuccino (che sembra buono) con un cuore disegnato di sghembo nella
schiuma.
Sembra
essersi ripresa un po’, si stringe sempre nella felpa da uomo troppo grande, ma
ora mi guarda negli occhi. Allunga i lati della bocca senza sorridere.
“Sognavo
hai detto. Perché ora non sogni più?”
“No.
Ad un certo punto volevo fare la rivoluzione. Per passare dai sogni ai fatti.
E’ la cosa che ti viene naturale, se ci pensi, quando sei giovane o
presuntuoso, o entrambe le cose. Come se tutti dovessero condividere il tuo
sogno o anche solo capirlo, anche senza condividerlo e quindi accettare il
fatto che tu voglia che lo sognino tutti.
Se
ci pensi che stronzata. Bisogna proprio non capire un cazzo. Nemmeno le persone
più grandi hanno mai messo d’accordo tutti, poi arrivi tu e sì certo, tutti
dietro. Ma se ammettere gli sbagli è da pochi ( e comunque sempre a posteriori)
accorgersi degli sbagli prima di commetterli non è proprio da nessuno”.
C’è
solo una ragazza, laggiù al tavolino in fondo, senza cellulare in mano, anzi
con un libro: una ragazza senza niente di speciale, capelli dritti raccolti,
niente trucco, spalle strette, ma il libro è un vecchio Oscar con delle
figurine stilizzate sulla copertina, sembra uno di quei grandi romanzi
ottocenteschi ricchi di avventure o poveri di colpi di scena ma pieni di drammi
interiori.
Ha
alzato le spalle e mi guarda sempre più fisso negli occhi.
“Ma
rivoluzione in che senso scusa?”
“Mah
mi mettevo su Facebook in diretta a dire quello che mi passava per la testa. E
qualcuno seguiva. Qualche altro mi insultava, c’era chi mi diceva bravo, sono
d’accordo, domani c’è una manifestazione andiamo.
E
magari ci andavo davvero, e finiva con una birra, un bicchiere di vino e a
volte una scopata. Ma alla fine penso fosse voglia di uscire di casa e stare in
compagnia di qualcuno. Sì alla fine ero solo e volevo uno sfogo, una via
d’uscita. Alla fine le rivoluzioni nascono da una grande visione o da una
piccola solitudine. Che se segui una specie di filosofo poi, ti può dire pure
bene, magari trovi la tua visione della vita, quello che cercavi, a livello
della tua comune e banale esistenza intendo, ma se ti metti in mente di farlo
tu il filosofo, eh, la delusione può essere grande.”
Entra
una signora anziana con un cane, anziano quanto lei, col muso bianco e ispido.
Si appoggia al bancone con un sospiro, ordina una brioche, la prende in mano
esitante, la divide scrupolosamente in due e ne da’ metà al cane.
Ho
finito il caffè (menomale) e faccio oscillare il cucchiaino, facendolo andare a
sbattere ai lati della tazzina: ne viene fuori una nota tagliente.
“Vuoi
altro?” “No”. Mette la schiena completamente dritta, i lati della bocca si
allungano e si tendono sempre di più, mi pare cerchi di mandarli verso l’alto.
“
Ma alla fine perché stavi piangendo quando ci siamo incontrati?”.” Perché mi
sono reso conto di non essere un filosofo e di non aver trovato la mia visione
della vita”.
“Mmmmm,
sì una bella sfiga, e quindi che vuoi fare?”
“Costruire.
Qualcosa a partire dai miei sogni. Tornare indietro, al punto di partenza,
riprendere i miei sogni.
E
fare qualcosa che sia solo mio, solo per me. Fatto secondo quello che sento. E
magari qualcuno apprezzerà e vorrà fare lo stesso. O qualcosa di simile.”
Nella
pioggia rada e fine una nuvola si schiarisce, sbianca e tenta di aprirsi. I
lati della bocca puntano all’insu’.
Ti ho visto ieri
sera, su quella panchina, curvo dentro quella felpa scura troppo larga, gli
occhi rossi. Non ho avuto il coraggio di fermarmi, chiederti come stavi ed
offrirti magari un caffè. Oggi, pensandoti, in riparazione potrei dire, scrivo
queste due righe. Se ti arriveranno non lo so, magari in sogno.
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