S’incuneava dal margine fra legno e metallo, come risucchiato all’interno, sembrava ripulisse lo stantio, con eccesso di zelo.
Fastidiosi spifferi gelati.
Dicevano che il vento del nord durasse tre giorni, ma ormai erano
settimane che sibilava, a raffiche ritmiche, senza silenzio, innalzando e rilasciando
cose, staccando rami, inginocchiando le chiome spelacchiate.
Frantumi e mulinelli.
F. indossava con cura occhiali da moto, guanti sciarpa e cappello, sopra
una tuta arancione di lana bouclé, saliva sul soppalco, sollevava l’anta della
finestra a tetto, e, simile a un periscopio, emergeva dalle tegole muschiose.
Passava le mattinate affacciata alla finestra, controvento, scrutando
l’orizzonte come una vedetta, come potesse, con l’andare del vento, scovare il
punto esatto dove scaturisce la corrente.
Guardava il suo orizzonte veleggiare dalle colline.
Il gigantesco cipresso solitario pareva ondeggiare;
parevano il salto di una balena incatenata alle radici, ancorata in un
mare d’erba alta, gialla anzitempo.
Fu la quarantanovesima mattina che il vento aumentò a dismisura.
F. sali sul tetto e cavalcando la megattera disancorata
uscì dai confini della storia.
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