GIORNO 5.
Il mattino dalla finestra è
una cartolina dipinta senza sentimento, un fotografia vivida senza vita.
Le pance delle tegole al
sole , rosso scuro, i muri giallo limone interrotti dalle persiane verdi e
dalle terrazze marroni, il cielo azzurro incollato dietro il crema con qualche
tocco di bianco delle facciate delle case, le colline in fondo, separate dal
resto da una linea così netta da sembrare nera, mezze salvia degli alberi,
ancora in cerca della primavera e mezze grigie della polvere dell’inverno.
E’ tutto ancora bello ma si
sta perdendo, come un bel viso che muore e perde la luce che risplendeva sotto
la pelle, mentre ancora si fa ammirare.
Come una bella statua, bei
lineamenti scolpiti nel lucido e freddo del marmo.
Gli uccelli che passano o si
fermano svolazzando sui rami cambiano ben poco: come attori che si affannano
sulla scena, andando avanti e indietro sorridendo, ammiccando, sbracciandosi,
per cercare di salvare una commedia scritta male, dalle battute maldestre.
Si sentono voci di fondo,
anche musica talvolta, anche risate: come quelle che dalla stanza accanto
arrivano confuse alle orecchie di chi sta addormentando o al ricordo di chi se
ne sta andando.
GIORNO 8.
C’è una catena che non so da
dove inizi e non so dove finisca, so solo che passa di qui e circonda me, le
mie quattro mura e forse tutta la strada. Non so se è leggera o pesante, se
potrei liberarmene o potrei giusto un po’ spostarla, trascinarla per qualche
metro, per rendere i miei movimenti più liberi, o solo togliermi per un attimo
dalla vista il suo corpo di biscia nodosa e metallica che all’inizio mi
infastidiva, ora mi opprime.
Non lo so perché è una
catena che non si può toccare, non si può prendere in mano, nemmeno sfiorare: è
una catena immaginaria.
E tuttavia ha la forza di
una catena vera: ed al contrario delle catene vere, di cui non vediamo l’ora di
liberarci, vogliamo tenerla ben stretta, anche se ci angoscia.
Alcuni sentono l’oppressione
di un brutto presagio: dove se ne liberassero, gravi sventure un po’ fiabesche
ricadrebbero su di loro, cose come la malattia, la morte, eventi comunque
infausti.
Per altri è una prova di
disciplina, una sfida con se stessi, resistere alla tentazione della libertà e
mostrare di saper sopportare prigionia e privazioni.
Per altri ancora è un
‘abitudine, perché c’è sempre stata una catena immaginata che li tenuti legati
ad una situazione, un ricordo, anche solo un’abitudine: una catena d’angoscia o
malinconia che ha preso solo un nuovo aspetto, un nuovo colore, nuova
lucentezza.
Qual è il vero atto di
coraggio, afferrare la catena e levarsela o vederla snodarsi, tenendoci
prigionieri, mi chiedo: e così il tempo passa, seguendo il corso di ciò che ci
trattiene. E magari il pensiero ne vedrà l’inizio e la fine.
GIORNO 10.
Ci sono giorni inquieti,
come un mare mosso. Scuro sotto le nuvole basse. Onde che spuntano dal basso e
gonfiano il pelo dell’acqua, all’improvviso. O si rituffano sotto o salgono,
fino ad esplodere in un ciuffo bianco e gorgogliante e disfarsi, ricadendo su
sé stesse.
Giorni non lieti né
particolarmente tristi, in bilico fra il filo dell’acqua e la cresta dell’onda,
fra il temporale e l’improvviso riaprirsi del cielo, in un travaso di luce.
E poi ci sono i giorni
rabbiosi, come un mare agitato, con onde che spuntano e rimangono alte e ferme,
come soldati pronti all’assalto: si muovono rapide cercando un’altra onda che
attraversi il loro cammino, per andarle addosso e schiantarla in basso,
rialzare la schiena e riprenderlo il cammino; o rompersi e ricadere
all’indietro, in un mormorio altissimo e ululante di disappunto; o spezzarsi
l’una contro l’altra e morire in un duello ridondante fra pari.
In questi giorni essere una
balena: enorme, indifferente, mansueta. Che sa, con poco ossigeno, preso
rapidamente fra un combattimento di onde e l’altro, calarsi nel buio freddo
dove tuttavia tutto è silenziosamente quieto, tutto è tranquillamente uguale:
niente movimenti, niente flutti, niente vibra, niente urla, niente si affanna.
Ed in questa assenza di ogni
impressione e di ogni sensazione, muoversi sicura e placida, con tocchi neanche
troppo vigorosi dell’immensa coda, verso il luogo conosciuto e amico.
GIORNO 12.
Tutti che si fanno un video
per raccontare come si sentono in questi giorni; che si affannano per farsi un
video dove in preda all’ansia si premurano di spiegare cosa fanno, come si
sentono, cosa pensano, cosa sperano in questi giorni.
Video decisamente sciocchi;
video animati da buoni propositi e tuttavia malriusciti, per carenza di mezzi
tecnici o dei mezzi intellettuali di chi li registra; video infantili di bimbi,
video infantili di adulti; video guardabili e video insopportabili, video
divertenti e video lacrimosi; video seriosi: cosa fa una femminista in questo
periodo, cosa fa un attore, cosa uno scrittore, in generale cosa fa un intellettuale
in questo periodo; video di donne che spiegano cosa si prova a non poter vivere
la propria relazione secondo i canoni consueti, a far l’amore sulla webcam, ad
aver imparato a fare il pane, ad aver trascorso più tempo coi figli, a non
poter andare dal parrucchiere e colorarsi i capelli a casa; uomini che spiegano
come cambiare una marmitta senza bruciarsi le mani.
No signori, non è così che
scioglierete la catena, anzi, appena vi allontanerete dallo schermo la
sentirete ancora più ingombrante e più pesante. Pesante ed ingombrante al
ricordo della vita di prima, che si ripresenterà più baldanzoso che mai al
confronto di tutte le sciocchezze che vi siete raccontati finora, fingendo di
riuscire comunque ad essere felici o almeno sereni.
Io sopporto: guardo la
catena venirmi incontro ed andare oltre chissà dove.
Muoversi, strepitare,
arrabbiarsi, pure far finta che lo stare incatenati ci possa, alla fine, andar
bene, tutto comincia ad avere un vago retrogusto di inutilità. Anzi, ora mi
stendo a braccia aperte ed appoggio il capo sulla catena: aspetto, un evento
lieto o triste, o di essere inghiottita dalla rassegnazione.
La catena non sa, lei
continua a srotolarsi.
GIORNO 14.
Una mattina sul mare. Una
qualsiasi. Su una spiaggia o affacciati da un pontile. Stesi sulla sabbia o su
una barca. Nell’acqua a guardare la riva, sulla riva a guardare le creste delle
onde, che arrivano e se vanno, arrivano e tornano, arrivano e si spengono. Con
un sacco di gente o senza anima viva. Io e te a camminare, io e voi a parlare coi piedi nell’acqua; da soli, in
coppia, a piccoli gruppi, a torme, a sciami.
Basterebbe che ci fosse il
mare, per compagno od in sottofondo.
Quanto mi manca, più di ogni
altra cosa, più di una libertà che chissà se io o altri abbiamo mai veramente avuto.
GIORNO 20.
Non vale la pena aver
affrontato tutto questo se non riusciremo a raccontarlo. Se non agli altri a
noi stessi, per fare il punto fra sé la mattina guardandosi allo specchio. Un
punto utilitaristico, questa è la prima cosa, quello che viene d’istinto: mi è
servito tutto questo? A rafforzarmi, a capire chi vale la pena tenersi vicino,
l’esatto grado della mia forza d’animo, della mia resistenza, meglio ancora
della mia capacità di sperare, di superare ciò che mi intralcia ed andare
oltre: sì o no.
E nel mettere ordine si
segue una logica che diventa un filo, una trama, non più una catena. Il bandolo
di una matassa che rotola davanti a noi e che qualcuno potrebbe raccogliere.
Non importa chi, quando,
perché: importa che lo raccolga. E che trovi in quel filo qualcosa che riguarda
anche lui. Non importa nemmeno che lo riavvolga fino a noi: in quella sottile
catenina che sussurra non deve trovare noi, deve trovare qualcosa che riguarda
lui e lui soltanto.
E così fra i due capi del
filo si sarà dipanato un senso e troveremo, ad uno dei due, anche la fine della
catena, arrotolata quieta su sé stessa.
Perché anche la più maestosa
delle balene, dagli anfratti bui e tranquilli delle acque profonde, risale ogni
tanto alla superficie: per respirare certo. Ma c’è chi giurerebbe di aver visto
anche un paio di occhi ammirare la linea impalpabile dell’orizzonte, più
trasparente dell’acqua ed azzurra al contrario dell’abisso.
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