È mattino. È mattino? Si,
deve assolutamente essere mattino. Ti prego, fa che sia mattino. Non riesco a
capire se fuori c’è luce. Forse è ancora troppo presto. Il bambino dorme
nell’altra stanza. Sento perfettamente ogni muscolo del mio corpo teso come le
corde di un violino. Non so perchè mi torni in mente il violino. Proprio ora. È
così tanto che non lo suono. Mi fa pensare a mio padre. Se fosse stato ancora
qui, le cose sarebbero andate in modo diverso. O forse no, chissà. Comunque i
muscoli sono tesi. Li sento. Soprattutto quelli del collo. Cerco di capire,
senza voltarmi, se lui è già uscito. Perché se lui è uscito, allora c’è qualche
speranza che la giornata inizi bene. Altrimenti dovrò fingere di dormire
ancora. E sperare che lui non decida di fare colazione con il mio corpo. Ma non
ho il coraggio di voltarmi. A volte basta così poco, un movimento del lenzuolo
che io credo impercettibile, per svegliarlo e innescare un cortocircuito
inatteso, impensabile, imprevedibile. Però la luce c’è. Ora la vedo. Quindi è
mattino e allora è sicuramente uscito. Esce presto nell’ultimo mese. Per
fortuna il lavoro che gli ha trovato Marco durerà fino all’estate. Muovo appena
la testa verso sinistra. Appena appena, cercando con la coda dell’occhio di
carpire la sua sagoma sotto le coperte. Quel fagotto informe. Non c’è, Dio sia
lodato. Mi alzo. La casa è vuota e silenziosa. In giro ancora l’odore del caffè
appena fatto. E il suo, un tempo un odore così amato. Guardo l’ora. È ancora
abbastanza presto. Quando lui esce per noi, per me e il bambino, è una festa.
Il mattino è il momento migliore della giornata perché ogni cosa al mattino mi
da speranza che tutto sia diverso: il sole, la luce, il sorriso di mio figlio.
Anche il mio volto allo specchio al mattino mi sembra più bello. Lo so, è una
speranza effimera. Ma è pur sempre speranza e a volte è l’unica cosa che serve.
Quando lui non c’è, il tempo si dilata e posso ancora fingere nella mia testa
di avere una vita normale. Ecco, il bambino si è svegliato, finalmente. Arriva
in cucina con gli occhi cisposi e i piedi scalzi. Arriva portandosi dietro quel
suo profumo di notte e sonno. È incredibile come si possa diventare dipendenti
da un odore. Si guarda intorno e mi abbraccia. Gli passo le mani tra i capelli
neri e glieli arruffo. I suoi capelli, così uguali a quelli del padre. Anche lo
sguardo lo ha preso da lui: a volte mi soffermo ad osservarlo mentre è intento
a fare qualcosa e scopro somiglianze che un tempo mi avrebbero reso felice ed
oggi invece mi atterriscono. Si può cambiare il cognome ma non lo sguardo. L’ho
detto all’operatrice del centro: posso pensare di scappare ma il suo sguardo mi
seguirà sempre perché è lo stesso di mio figlio. Lei mi ha risposto che uno
sguardo non può uccidere nè picchiare. Lo dice perché non ha mai incontrato il suo quando è
arrabbiato. Ma non gliene faccio una colpa: le persone non possono capire
l’inferno se non ci hanno mai messo piede dentro. Bisogna cambiare vita, mi ha
detto l’operatrice, io ti aiuterò. Bisogna solo sopravvivere, mi dico io. E in
questo mi aiuterò da sola.
È mattino? No. Non può
essere già mattino. Ti prego, fa che non sia mattino. Non riesco a capire se
fuori c’è luce. Forse è ancora troppo presto. Il bambino dorme nell’altra
stanza. Emergenza corona virus la chiamano. Noi siamo sempre in emergenza.
Adesso però è molto peggio perché lui non esce più. E noi siamo costretti in
casa. Il lavoro è stata la prima cosa a saltare. Poi è toccato ai miei nervi. È
un incubo. Le giornate sono lunghissime. Spero sempre che la sera si ubriachi,
così almeno dormirà fino a tardi. E questo significa che io e il bambino avremo
almeno qualche ora per noi. Per la nostra tranquillità. Che strano parlare di
tranquillità nella nostra situazione. Ma se lui dorme, noi riusciamo quasi a
divertirci. Facciamo pianissimo per non svegliarlo. Anche il bambino lo sa che
deve far piano. Non credo di averglielo mai detto. Lo ha capito da solo. A
quattro anni si capiscono molte cose senza bisogno di spiegazioni. Matteo poi è
un particolarmente sveglio. Ieri comunque lui non ha bevuto. Non abbastanza
almeno. Non so che ore sono ma so che tra un pò si sveglierà. Prego che non si
svegli prima Matteo, perché lui non sopporta che io mi alzi dal letto prima di
lui. Neanche se si tratta del bambino. Il mattino è il momento peggiore della
giornata perché è l’inizio di un incubo che dura 24 ore e ora che siamo
costretti a stare in casa, le ore non sembrano 24 ma 48 e forse anche di più.
Trovo il coraggio di alzarmi. Faccio pianissimo, scosto appena il lenzuolo. Lui
si muove cambiando posizione. Mi si gela il sangue. Ma per fortuna non si
sveglia. Continuo la mia fuga dall’ammasso di coperte che sono il mio rifugio
notturno. Svicolo in cucina e faccio il caffè. Calcolo sempre ogni movimento
per evitare di irritarlo. Movimenti meccanici, ripetitivi, sempre uguali, ogni
giorno, da un mese a questa parte. Non so se ce la farò a resistere. Ma non c’è
via d’uscita. Letteralmente. Non si può uscire, lo hanno detto chiaramente. È
legge. Una legge che mi condanna alla paura perenne. Una legge per la quale io
e Matteo non esistiamo. Altrimenti non permetterebbero che noi restassimo
chiusi in casa con lui. Senza alcuna possibilità di fuga da questo mattino
continuo. Le ore si susseguono cambiando solo il colore. Vivo un eterno inizio
di una giornata che vorrei fosse l’ultima. L’ultima giornata, l’ultimo mattino,
la fine del mondo. Qualsiasi cosa sarebbe meglio di questo. Bisogna solo
sopravvivere, mi dicevo. E ora? Sento il mio nome dalla stanza accanto. È il
bambino che mi chiama. Indosso l’abito del coraggio e mi preparo a rivivere il
solito terrificante dejà-vu di un giorno già vissuto.
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