mercoledì 30 settembre 2020

CARLETTO di Giuseppe Fiore

Carletto era uno schizzato che giocava con me a pallone. Era piccolino, un po’ gobbo. Non ho mai ben capito perché non lo chiamassimo Carlino. Credo per la storia della madre. Una storia, che nel quartiere, conoscevano tutti. E lei, quando eravamo piccoli, usciva correndo per venire a catturare con forza il braccio del figlio. E lo chiamava sempre” Carletto”. Era rimasto così. Un ricordo che continuava a sopravvivere, nelle voce di ogni ragazzo che sudava sotto casa.

Era particolare. C’erano giorni in cui sembrava scendere sempre più in una fossa. Stanco, sporco, fumava come un dannato, prossimo al definitivo taglio della gola. Sempre con un paio di cuffie. Si isolava da tutto. Ascoltando a ripetizione sempre le stesse canzoni. Di qualche rap sconosciuto e, avesse voluto, avrebbe potuto ripetere ogni singola parole di quei testi, pieni di diagonali assurde. Con la memoria, Carletto, era un fenomeno. Quando eravamo più piccoli, conosceva a memoria le formazioni delle squadre. Ma tutte, anche di serie B o straniere, o peggio, delle serie B straniere. Era assurdo. Lo accerchiavamo in tre o quattro e partivamo con le domande. Cercavamo di alzare continuamente il ritmo, per farlo sbagliare. Cercavamo, scavando nella nostra memoria di superficie, le squadre meno conosciute. Eppure le sapeva. Diceva che studiava l’album delle figurine. Poi negli anni, dopo quello che successe, iniziammo a dargli tregua. Cambiò tutto. Anche nel quartiere, quando sua madre morì, sembrò cadere una scenografia colorata, strappata dalla fine di un illusione. Ora non so se davvero fu così, oppure fu solo una visione fanciullesca, che si plasmava nella mia mente pura. Però, anche a casa mia, quell’evento si insinuò nelle sedie, nei letti, negli occhi dei miei, nelle loro parole e nei loro sorrisi. Il quartiere perse colore e una leggera velata malinconia scese come nebbia, in ogni casa, in ogni famiglia di quei ragazzi che scendevano a giocare a pallone. E Carletto, anche dopo anni, mentre girava per le stradine, sembrava portare un piccolo zainetto di malinconia. Non era colpa sua, però, la mia mente, non riusciva a separare la vecchia e la nuova vita. E diventò più schizzato di quanto già lo fosse.

Da piccoli era particolare. Parlava continuamente, era una specie di macchinetta. Senza freni. Dopo diminuì, fino a sparire quasi. La sua voce, che prima riusciva a penetrare nella mente di chi ascoltava, diventò un ricordo. Faceva parte anche quello della vita di prima. Di quella scenografia colorata. Carletto che parla e noi che lo sfottiamo. La madre che ci guarda dal balcone e sorride. E non ci abituammo mai davvero al grigiore, che instaurò la sua dittatura. Ci convivevamo, poi scappammo alla prima età possibile. Portando, con noi, solo mezzi ricordi.

Una cosa, del nuovo Carletto, che non mi dimenticherò mai era la torcia. Portava sempre questa luce immensa con se. Quasi sapesse che il colore che restituiva fosse il nero, malinconico e allora provasse a compensare con questa luce. Anche se io sapevo bene il vero motivo. Ma non ho mai detto nulla agli altri, perchè non ha senso riprendere vecchie storie. La morte è una chiusura decisa. E Carletto se voleva portare luce poteva, nessuno avrebbe dovuto criticarlo. Solo che, nel quartiere, le voci sono più veloci della luce stessa.

E, dopo quello che successe, Carlo aveva attraversato un primo periodo di totale dispersione. Ricordo solo un quadro immobile. Lui, di sera, su una panchina, con la luce sulle gambe e le cuffie. E un paio di volte avevo provato a lasciarmi cadere affianco. Faceva finta di nulla. Il dolore era un lazzo stretto che non gli permetteva di parlare. Era l’unica chiave che poteva spegnere quella macchinetta di parole. La scenografia, che nel quotidiano, continuava a strapparsi. Devo ammettere che in quelle sere, seduto in silenzio, la voce di Carletto mi mancava da morire. Avrei voluto assorbire un po’ di tutti quei pensieri, così aggressivi, che lo torturavano. Ma non potevo fare nulla, solo sperare vincesse quella battaglia.

E, nel quartiere, girava voce che sarebbe stato mandato da qualche parte. Per farsi aiutare e lo iniziavano a vedere come un problema. Cercando di eliminare la sua esistenza dalla realtà.

Poi, come sempre, il più grande portatore di cambiamenti è il tempo. Allora potevano esserci giorni in cui la luce era particolarmente forte. Non era la macchinetta di una volta, però tirava anche qualche calcio al pallone. Sorrideva. E sembrava, per qualche attimo, ricucire quella scenografia. In altri giorni era il Carletto con la torcia sulle gambe. Con una luce fioca. Zitto. Con le cuffie e senza memoria di parole. Non ho mai ben capito da cosa dipendesse questa profonda lunaticità. Noi lo prendevamo sempre per quello che era. Silenzioso o poco sorridente.

Quando siamo andati tutti via, Carletto è rimasto nel quartiere, con il padre. Un uomo semplice e che, per sconfiggere il dolore, buttava giù quello che trovava al supermercato. Era un muratore, e vivevano di quello. L’ultima sera, lo guardavo, seduto con la luce sulle gambe ed erano passati ormai 8 anni. Ma comunque mi veniva ancora da piangere. Perché solo io e Carletto sapevamo davvero. E non avevo mai avuto le palle di parlargli. Avevamo solo, quasi telepaticamente, deciso di eliminare alcuni momenti della nostra vita.

Il quartiere è in una zona di periferia della città. C’è un punto, in cui noi bambini non potevamo assolutamente andare, che si affaccia sulla Gravina, un burrone naturale. Profondissimo. Era lì che la mamma di Carlo aveva i fili per stendere e non ho mai capito perché.

Quella sera io ero con Carletto sulle panchine, quelle che sarebbero diventate colme di dolore. Avevamo la torcia e stavamo guardando le figurine. Carlo aveva sempre dei doppioni eccellenti, ma non voleva mai lasciarli gratis. Doveva sempre riuscire ad ottenere qualcosa e non riuscivi a convincerlo. Attivava la macchinetta e ti distruggeva.

Allora quella sera eravamo sulle panchine. E contrattavamo per un doppione che ho completamente rimosso.  La madre iniziò a chiamare il figlio, nel celebre modo che sarebbe diventato un triste ricordo. Gli dice che vuole la torcia per andare a prendere dei panni. Sia io che Carletto, troppo presi dalla vendita e dal non voler sbagliare nulla contro l’altro, non ascoltiamo proprio. Lei viene e noi afferriamo la torcia, quasi una sfida, per continuare il nostro accordo. Lei si incazza e va. Avevano solo quella torcia in famiglia.

Non c’è bisogno che continui a raccontare la vicenda. Quella è stata l’ultima scena girata nella perfetta scenografia.

Spesso poi sono andato in quel punto che cade a picco e il senso di colpa ha rischiato di buttarmi giù in certi momenti. E da quel giorno Carletto non ha più abbandonato la luce, che avrebbe salvato la madre. Odia il buio, l’assassino silenzioso. Però non mi ha mai accusato, non ne abbiamo mai parlato.

E così, quell’ultima sera, non ho parlato. Perché in situazioni del genere non serve, non ne sarei capace. Mi sono lasciato cadere sulla panchina, con la luce artificiale come sfondo. E siamo stati in silenzio, come tante volte. E ho respirato più forte, per non scordare mai quel momento. Poi mi sono girato e l’ho abbracciato. Carletto. Non ha ricambiato, però piangeva. Come non avevo mai visto piangere in vita mia. Le lacrime erano dolore, quasi acide, quasi radioattive. Poi sono andato via. Mentre Carletto, con la sua luce sconfigge il buio e continua a vendicare la madre, seduto su una lurida panchina, che brucia e, un giorno, sprofonderà nel terreno.

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