martedì 30 marzo 2021

L’ANIMALE VIOLENTO di Silvia D’Oria

Tamburi. Li sento prima che apra la porta.

Lo studio è circolare; i tamburi non ci sono davvero, è solo una musica nell’aria. Mi saluta e come nelle altre sedute mi invita ad accomodarmi sul lettino. È una posizione che non mi piace, le gambe stese e le mani intrecciate sul ventre. Accanto c’è la sua scrivania, il legno scuro e sopra un porta penne con tre lunghe piume d’uccello nere. Muovo la schiena come se il lettino fosse scomodo anche se non lo è. Prende una penna e il taccuino e si accomoda accanto a me facendomi stare fra la sedia e la scrivania. Abbasso lo sguardo e penso che se volessi alzarmi adesso non saprei dove poggiare i piedi, tanto è piccolo lo spazio fra me e la scrivania, fra me e la sua sedia.

Mi domanda se possiamo iniziare e io non rispondo, come ieri e come domani annuisco e chiudo gli occhi. Ora c’è solo il buio e ci sono i tamburi.

A comando seguo ciò che mi dice. Smetto di sfregare i pollici tormentando i polpastrelli, ho le braccia intorpidite, quasi addormentate.

Immagino delle scale, sono di pietra e sono buie. Sul fondo due porte; quale apri, mi domanda, destra o sinistra. Sinistra. Stringo la maniglia e sento il freddo ferro sul palmo.

C’è il mio dormitorio in Scozia. La stanza è stretta e umida, un letto singolo con lenzuola non mie. Avevo diciotto anni. Mi ritrovavo uomini nudi in camera che avevano sbagliato stanza. Ne ridevo pensandoci il giorno dopo. È successo solo una volta ma ne ho riso.

Sento i tamburi che battono e sento il ventre vibrare. Anche se quel suono non è in Scozia, è qui. E qui io sono distesa con gli occhi chiusi. Il torace ha seguito le braccia ed è addormentato; ora il torpore scende verso le gambe e i piedi rivolti alla porta dello studio circolare.

Mi dice di uscire dalla stanza e io a comando esco. Le scale non ci sono più, c’è una steppa brulla e vuota. L’unica cosa che vedo è il giallo dei campi; l’unica cosa viva oltre a me è il vento forte che si muove tutto attorno. Vedi altro, mi domanda. Aguzzo lo sguardo: c’è una scala. Bene, dice, sali. Il volume dei tamburi cresce come se fossero più vicini. Salgo i gradini e sono dall’altra parte. Se solo sentissi ancora le gambe fuggirei dal lettino ma ora non le avverto più.

È la Mongolia e questo è un ger. Una tenda bianca e circolare con una montagna di stracci al centro e sotto tappeti su tappeti. Davanti a me un tavolo scuro e sopra un artiglio d’uccello e il teschio di un montone con le corna arcuate e spesse. Accanto al tavolo un tamburo ma non lo suona nessuno. Sento le percussioni ma sono qui accanto al lettino.

Mi volto e vedo una sagoma seduta, ripiegata su se stessa. La tunica verde è pesante, gli scende sulle ginocchia piegate e la schiena afflosciata. Solleva la testa e ha il viso coperto da un velo nero che cade sugli occhi e nere piume tutte attorno al capo. Lo spirito è dentro lo sciamano e lui mi vede.

Tremo senza muovermi con i piedi piantati a terra; le unghie nei palmi che non si distendono. Attenta, mi dicevano, potrebbero farti qualcosa. Maledirti. Non mi hanno mai fatto niente ma lo sciamano ora mi vede. È seduto, non si muove. Ma potrebbe. Potrebbe usare la frusta che ha accanto e percuotermi. Il sangue l’ho visto. I tamburi battevano e lo sciamano percuoteva chi accettava il rito e sottostava alle preghiere. E io guardavo e non mi muovevo e ora non mi muovo. E lui mi vede, vede me nel rito.

Lui siede e mi guarda. I muscoli delle mie cosce sfregano e tremano, le spalle fanno su e giù e sento qualcosa battere dentro, nel torace. E sento la sincope degli spasmi del corpo. E sento che non accade niente ma qualcosa si muove tutto attorno.

E non sento più i tamburi. Guardo quelli accanto al tavolo con gli artigli d’uccello e le corna di montone. Nessuno li ha mai suonati.

Sono sul lettino e la Mongolia non c’è più.

Torna il buio e non sento più i tamburi.

Qualunque cosa accada in questo momento non potrò muovermi.

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