domenica 31 ottobre 2021

BARDO di Fabrizio Ernesto Giuseppe Coco

Rassegnato al succedersi di esistenze e stadi intermedi guardo i moscerini autunnali turbinare intorno alle foglie sbriciolate e marce, ricordano le volute aromatiche d’incenso.

Gli ultimi fiori sembrano avvizzire, alcune foglie sono impregnate di rosso autunnale e l’odore di terra madida ha il sopravvento. Questo gelsomino imponente mi attraeva per i tronchi intrecciati, i tralci incrociati tra loro e i rami spuri attorcigliati intorno all’aria che restavano immobili come un meditatore diligente. Mi meravigliavo nel trovare sempre intorno al tronco, gatti pasciuti intenti a triturare e a poltrire satolli.

A quel tempo leggevo e praticavo, per apprendere. Avevo provato la percezione di sé e le danze sacre di Gurdjieff per frantumare la meccanicità. I Koan e il muro bianco su cui scaraventare i pensieri. La ripetizione lenta e precisa dei movimenti del Tai Chi per percepire il corpo.

Quando entrai in confidenza con le dense visualizzazioni e i Mantra buddisti, finalmente mi sentii a casa.

Un giorno, passando da questo vialetto, ho sentito la forza del gelsomino: mi chiedeva di apprezzare le sue inflorescenze ammalianti e profumate. Mi avvicinai ad annusare e alcuni fiori si staccarono cadendomi nella mano. Li trasportai con cura fino a casa per offrirli al Buddha. In un paio di minuti marcirono. L’aria sapeva di putrefazione. Gli incensi trasformarono ogni molecola di quel puzzo.

Avevo fame di pratica e conoscenza e ricevetti istruzioni sul Tonglen: inspiravo il dolore degli esseri senzienti con cui entravo in contatto, espiravo su di loro beatitudine, per lenire le loro sofferenze. Alcune persone mi dicevano di sentirsi più leggeri e liberi. Di questi risultati non mi sono mai vantato: era un dono della pratica.

Volevo andare oltre, così chiesi di essere iniziato al Tummo e dopo il ritiro, riuscivo a sviluppare e mantenere il fuoco interiore. Nelle giornate fredde, gli individui mi passavano accanto e non sentivano più l’algore nella carne. D’estate invece, era impossibile starmi vicino. Se m’incrociavi mentre mangiavi un gelato ti si struggeva seduta stante.

Presi l’abitudine a fare brevi ritiri, lontano da casa e dal mondo, così da purificarmi e dare nuova luce alle mie energie. L’ho fatto anche quest’anno.

A fine agosto, rientrato da pochi giorni, sono ripassato davanti al gelsomino: era ancora più imponente e solido dell’ultima volta. Lo contemplavo e immaginavo la faccia sbigottita di chi lo aveva piantato, di sicuro non si sarebbe mai aspettato un risultato così in un luogo pubblico e senza alcuna cura. A un certo punto ho sentito lo stesso silenzio provato in alcuni momenti del ritiro e dalla chioma intricata, insieme all’essenza calda e pungente, ne arrivava anche una, dolce e morbida, come di rosa. Quei profumi mielati mi pizzicavano la mente e gli occhi.

Inspiravo, mi stordivo, mi illanguidivo.

Poi un cane mi leccò le dita e mi ridestai. Guardai il cellulare. Si era fatto molto tardi, avevo ricevuto un paio di telefonate, ma non le avevo sentite. Dovevo rientrare in fretta.

La sera ebbi difficoltà a concentrarmi sul respiro, a entrare nella meditazione. Mi dissi: Capita! Imparare a rinnegare le aspettative, questo ha valore.

Volevo ritornare a sentire quel profumo, ma seguirono giorni di rovesci e perturbazioni che mi obbligarono ad altri percorsi.

Dieci giorni fa, ahimè, sono tornato in questo vialetto: il gelsomino era florido e fiorito come in primavera, il maltempo non sembrava averlo scalfito. Percepivo quell’odore ammaliatore. Inalavo e penetravo verso il centro della chioma. Era confortevole. Mi appagavo e non mi rendevo conto che i tralci mi avvinghiavano e i fiori carnosi stavano aderendo alla mia pelle come sanguisughe affamate. Non mi raccapezzavo, sentivo salire un dolore sordo e l’energia scemare. Provai a domare il panico con le tecniche apprese, ma il dolore aumentava. Ancora lucido meditai sulla dissoluzione dei cinque elementi per prepararmi al trapasso. La cosa scatenò l’appetito vorace della pianta e aumentarono le fitte lancinanti.  La mia forza spirava. Per sottrarmi a quel supplizio feci l’errore di posare la mente sulla bellezza di una farfalla, indifferente alla mia sofferenza, si era adagiata a pochi centimetri.

Fu l’ultimo atto karmico della mia coscienza in quel corpo umano.

Iniziava il bardo della morte.

Dopo sette giorni, a causa di quel lepidottero illusorio, mi schiudevo bruco.

Ogni giorno trascino questo corpo setoloso. A volte un ostacolo mi fa rotolare, mi arcuo e con difficoltà mi rimetto sulle zampette e riprendo il percorso. Striscio lungo la pianta, mi nutro vorace delle stesse foglie che mi hanno divorato. Ingrasso e muto l’involucro. Spero di ascoltare echi di mantra per una rinascita fortunata, nel frattempo ricerco il posto perfetto in cui diventare crisalide. Ho una certa impazienza di trasformarmi in farfalla, vorrei volare fino a dove era casa mia.

 

1 commento:

  1. Mi è piaciuto molto.
    Il racconto è equilibrato; con ritmo è condotta la narrazione.
    Una metafora della vita: ammaliante e spietata.

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