lunedì 31 gennaio 2022

IL GIARDINO DELLA CACCA di Sabrina Carollo

“Per me quello non è un giardino, è un luogo maledetto”.

E una volta pronunciate queste parole, non ci era più voluta entrare. Che lei, quando si metteva in testa una cosa, la faceva, cascasse il mondo. E poi l’avevano aiutata una vita vagabonda, accozzata a quel lavoro che le piaceva tanto, che non avrebbe mollato per tutto l’oro del mondo - altro che fidanzato o marito, era quello il grande amore della sua vita - e che l’aveva portata lontano, in giro per il pianeta come un satellite in orbita erratica.

L’ultima volta che era stata lì le aveva prese: la solita bulletta della scuola, quando ancora non erano stati definiti esattamente dalla psicopedagogia i bambini prepotenti che spalleggiati dall’impunità garantita dai propri genitori spadroneggiavano sulle esistenze degli altri, piombando come l’apocalisse sui tranquilli tran tran di scambi di vestitini e partite a guardie e ladri. Tra femmine non erano botte da orbi, ma bastavano qualche spinta, le offese a muso duro negli anni in cui tre centimetri fanno la differenza. Un attacco più subdolo, perché non lasciava tracce, ma era composto soprattutto di ostracismo e mancati inviti alle feste di compleanno. Quella volta però, aveva risposto per le rime e la carognetta aveva passato il segno: le aveva tirato i capelli così forte che una ciocca le era rimasta in mano, e assestato un pizzicotto sul fianco da sentirne gli spilli ancora oggi, a ripensarci. Aveva giurato di non tornarci più, nel giardino della cacca, come lo aveva ribattezzato, e così era stato. Avrà avuto dieci anni o giù di lì; ora, a poco più di quaranta, ci stava ripassando davanti. Sorrise, ripensando al suo proposito di allora, anche con un po’ di compiacimento per la propria determinazione: non aveva mai sgarrato, in un modo o nell’altro. Si domandò se avrebbe dovuto rispettare la decisione presa allora fino alla morte oppure se, complici le necessità burocratiche che l’avevano riportata lì come in una casella del Monopoli, si sarebbe potuta concedere di entrare in quel fazzoletto verde per buttare un’occhiata. Così, giusto per la curiosità di vedere quanto erano cambiate le cose nel frattempo. Decise che si, che ci sarebbe entrata. A dispetto della logica, lo avrebbe fatto proprio per onorare la memoria della bambina che era stata e per spezzare completamente i ponti con quei momenti che ora potevano far sorridere - non lei, comunque - ma che all’epoca le avevano fatto versare un congruente quantitativo di lacrime.

Ed entrò.

Molte cose erano cambiate: i giochi erano di nuova generazione, in plastica riciclata e dai colori vivaci, non certo quell’ammasso di tubi di ferro mezzo arrugginiti a cui si appendevano loro, e la pavimentazione era antiurto, in quel materiale strano che le avrebbe risparmiato non poche cicatrici su fronte e ginocchia, al tempo. Anche le panchine erano ovviamente nuove, con i braccioli a interrompere la lunghezza della seduta per evitare che qualche povero cristo ci passasse la notte, come andava di moda ora nella società delle tre scimmiette ingioiellate. Gli alberi erano altissimi: svettavano nettamente oltre il muro di cinta della scuola di fronte, e diversi altri erano stati piantati nel frattempo. Eppure la disposizione degli spazi, l’impostazione generale e soprattutto l’atmosfera erano rimaste le stesse. La colpì come uno schiaffo la constatazione che le dimensioni del giardino erano nettamente inferiori a quanto ricordasse: nei suoi ricordi formati a un metro e venti da terra quel giardino era enorme, mentre ora poteva ben abbracciarlo tutto con lo sguardo, e considerarne la grandezza decisamente contenuta, quasi mesta nelle sue possibilità di gioco.

Si concesse qualche minuto e si sedette in un angolo a osservare il via vai dei bambini, le mamme in gruppo, i passeggini, i richiami, le merendine, le corse e le grida. Si rivide ad arrampicarsi, le treccie storte, le ginocchia perennemente sbucciate, la foga e l’inconsapevolezza, la fatica di decifrare un mondo complicato senza libretto di istruzioni.

Non le mancava la se stessa bambina. Le disse addio, si alzò e uscì dal piccolo giardino di città.

 

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