lunedì 31 gennaio 2022

RACCONTO D’ACQUE di Gila Manetti

Lungo il perimetro dell’intero isolato sfarfallavano al venticello caldo di agosto triangoli di carta cerata variopinta tenuti insieme da uno spago di corda raddoppiato: le bandierine della vicinanza, così le chiamavano.

Segnavano con pacchiana allegria il tempo di due settimane dove i negozi abbassavano le saracinesche, gli uffici serravano le porte blindate, le fabbriche acquietavano i motori, le macchine lasciavano spazi aperti ai cordoli dei marciapiedi.

Allora il vicinato non avvezzo alle ferie villeggianti si riuniva, senza badare troppo a orari e forme, al fresco dell’unico verdeggiare rimasto fra i palazzi e le industrie.

Il giardino degli Inciampi.

Vuoi perché era pieno di buche costate caviglie e fascioni, vuoi perché il monumento che avrebbe dovuto portare lustro e decoro al parco s’era spaccato in fase di montaggio lasciando in attesa un piedistallo circolare di cemento francese e marmo rosa con la scritta “Ai cittadini caduti”, dove i bambini giocavano a “tavola apparecchiata”.

Nella bellezza della dimenticanza gli alberi dalle ampie chiome selvagge regalavano ombra e temperature accettabili oltre a fornire rami per altalene fuori norma e tronchi attorniati da corde robuste per amache fatte di tappeti, coperte o lenzuola.

Il Comune aveva minacciato più volte di mandare squadre di potini altamente qualificati a capitozzare i perniciosissimi tentacoli che mettevano in pericolo la vita dei più, ma fortunatamente quartieri migliori e più attivi nelle rimostranze intercettavano financo gli spiccioli, deviando così le cesoie in più domati cespugli.

Davanti al monumento mancato si distendeva una lunga e stretta vasca alta un braccio di Adelaide Ferrami, lunga cinquantasei passi e larga sette della medesima, piastrellata di tessere piccolissime color azzurro variabile, muschio e carpe rossicce. Suddetta piscinetta in questa quindicina di giorni si popolava densamente di creature di ogni età e costume.

Con buona pace per i pesci che venivano in cambio ricompensati da briciole e pelletiche rilasciate dai bagnanti.

Il professor Franco Mariotti e la Professoressa Maria Franceschetti, sposi e docenti di “Teoria e Pratica dell’esercizio fisico” alla scuola Statale, si offrivano ormai da un decennio, a turno o contemporaneamente nei momenti affollati, di fare i Bagnini.

Non tragga in inganno la poca profondità dello specchio d’acqua: tra scivolate, indigestioni, assopimenti, cozzi e tafferugli, i nostri due avevano salvato dall'annegamento un numero spropositato di cittadini, fatti che li avevano resi coniugi ed eroi del circondario.

Al crepuscolo intorno alle panchine fissate nel terreno si aprivano gislonghe, si spiegavano plaid, si accendevano fornelli da campeggio e si scoperchiavano borse frigidaire.

Si dava dunque avvio al governo dei popoli, s’inventavano ricette con ingredienti a sorpresa scartati all’istante, si sorbivano misture inebrianti e freschissime, si ballavano fritture e dispetti.

La musica, rigorosamente dal vivo e senza corrente, vedeva alternarsi suonatori e cantori d’ogni palazzo e provenienza in una mescolanza di stili, età, accenti e linguaggi.

Solo il quinto anno della Comunanza fu deciso all’unanimità che fosse la cosa migliore, poiché precedentemente i sistemi di amplificazione accavallati avevano reso quel giardino un inferno simile alle fabbriche, quando le fabbriche somigliano a inferni.

Si consumava in quel giardino una feria condivisa, senza pareti, raramente interrotta da acquazzoni che vedevano ritirare i partecipanti per lo stretto necessario.

Era un tempo in cui ogni confine si dissipava, ogni asperità invernale si scioglieva, un tempo di commistione e condivisione di un mondo possibile, sebbene ritagliato fra ciminiere, asfalto e cemento armato male.

 

Tuttavia quell’anno, a tre quarti del tempo, qualcosa di particolare accadde, qualcosa che mai sarebbe potuto riaccadere.

 

Gisella Tarquini dell’attico doppio con vista Campanile posto al dodicesimo piano del palazzo/ufficio di famiglia, al numero 1357/G di Viale Assio, rimasta vedova e gravida al medesimo istante, proprietaria della manifattura Tarquini & Tarquini che dava lavoro a un numero non indifferente di famiglie del quartiere, dopo lungo e solitario inverno, rifiutò di raggiungere la famiglia allo Chalet Ristoro sulla Costa Est, asserendo che “non le fosse mai piaciuto e che aveva le palle piene di tutti quella paccottiglia del cazzo e preferiva rimanere in quel bidet dimenticato da dio che unirsi a una manica di stronzi quali erano i suoi familiari, soprattutto ora che era rimasta sola con la sua pancia a fare da cane da guardia ad un luogo che vedeva fuggire anche la nostalgia della cultura”. La telefonata fu urlata ad un apparecchio color “giallo di Napoli”, munito di lunghissimo cavo attorcigliato, dal terrazzo che affacciava sul retro, cosicché ogni parola si trovò riflessa e amplificata in un’eco che riecheggiò per le vie sbattendo sulle bandierine triangolari al momento esatto della loro stesura, come un vento di buriana, tra lusinga e offesa per ogni abitante del rione.

Dunque Gisella quella mezza estate, ogni giorno appena prima del crepuscolo si presentava all'ingresso del giardino degli Inciampi in tutta la sua sobria eleganza, s’inseriva a capo alto nel vialetto centrale che costeggiava la vasca come a voler fendere l’aria, cercando di sfondare un velo d’elastico che la respingeva indietro. Ogni giorno un po’ più in là. Ostinatamente.

Non salutava, non reagiva agli schizzi, agli schiamazzi, alle offerte d’assaggio.

Non vedeva oltre la determinazione del suo incedere.

Fu il decimo giorno quello in cui arrivò all’altezza del piedistallo. 

E li cadde.

Le acque del suo grembo s’apersero e le colarono lungo le cosce.

Dopo una ossequiosa esitazione le si fecero intorno Bartolo Fuochi, Giuditta D'Amadeo, insieme alla maestra Marzia, Tonino il verduraio e le tre sorelle Gemelli con rispettivi mariti e nove figli.

Fu Giuditta D'Amedeo, di stazza importante, a tirarla in piedi e condurla a giro: “per agevolare il canale” diceva.

Ogni qualche minuto le due donne si fermavano per accogliere la doglianza e farla lavorare all’apertura.

Gisella mormorava “MMMMM” mentre Giuditta la esortava a continuare accostandosi a suo mantra, cosicché via via che le fermate si addensavano per tempo e contrattura tutto il parco s’unì a quella vibrazione che scuoteva le cortecce e le fronde.

 

 

I musicisti imbracciarono gli strumenti e scovarono note d’appoggio, sui fornelli si scaldarono brodi e si cossero pani, i bambini giocavano alla creazione del dio vasaio, mentre la donna e la creatura si preparavano al distacco del passaggio alla vita.

A mezzanotte in punto, mentre la campana rintoccava i ventiquattro colpi, Gisella si adagiò nell’acqua.

Il suo respiro era un abisso di vita e morte, i suoi occhi chiusi e il suo corpo ora ignudo e caldo si muoveva guidato da dentro.

Sull’acqua levitava una coltre di vapore chiarissimo.

Giuditta si portò in ginocchio davanti alle gambe aperte della partoriente e le tenne forte le piante dei piedi. Gisella ululò alla luna e a tutti i pianeti del firmamento.

Allora Giuditta alzò al cielo la braccia e tutto il giardino s’unì all’invocazione alla vita, respirarono e cantarono come quando si è uno.

Silenzio.

Ora l’acqua si tinse di rosso, e una creatura, che soltanto per un attimo parve a tutti una sirena, apparve all’aria e trasse in sé il suo primo respiro.

Così nacque mia madre, Anna Giuditta Giardina Tarquini, in una notte che non si potette raccontare poiché le sue atmosfere furono così dense e intime da svanire con il rumore delle saracinesche settembrine.

Oggi che siamo qui a celebrarla davanti al mare che l’ha inghiottita voglio ricordare che nacque fra i pesci e con la coda da sirena e così, con la medesima forma, se n’è andata.

Sia pace.

 


 

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