I
molteplici livelli di traumaticità che dovetti fronteggiare erano stati solo in
parte preventivati dalla mia fulgida genitrice, sempre sollecita nell'infilarmi
con ingannevoli sorrisi in fosse di serpenti per vedere come me la sarei
cavata. Però era contenta, e io mi compiacevo di compiacerla (come di
dispiacerle), allora come oggi, in maniera rovinosa. In sé, e negli anni, si
rivelò un'occasione formativa preziosa e stimolante, ma vi era un sinistro
rovescio della medaglia nella gran quantità di tempo in cui si svolgevano
attività senza il controllo degli adulti. E in cui, logicamente, poteva succedere
di tutto.
Nel
lontanissimo ottobre del 1987 partecipo alla c.d. 'gita d'apertura'. È il mio
esordio totale e tutti sembrano, di primo acchito, relativamente gentili e
cordiali. A fine giornata registro un'esperienza tutto sommato piacevole,
nonostante una malcelata insofferenza che percepisco nei miei confronti da
parte di alcuni ragazzi più grandi: alle mie domande entusiaste e forse
snervanti rispondono infatti con cose del tipo 'machiccazzosei? Non rompere
il cazzo!'.
Con
altri due, ero stato affidato come 'caso problematico' ad uno scazzatissimo
sedicenne di nome Simone, il quale, come ci disse, non doveva neanche essere lì
e non aveva bene idea di cosa dovesse fare. Si limitò a spiegarci controvoglia
cosa stesse succedendo durante i rigidamente codificati rituali comunitari, per
poi raccomandarci di non fare domande se non avessimo voluto essere scuoiati.
Nella
realtà, noi nuovi entrati avevamo schivato, senza accorgercene, un atroce
rituale d'iniziazione: per l'assenza di un paio di tagliagole che avrebbero
dovuto occuparsi di noi e che, solo per puro caso e per nostra fortuna, non
avevano partecipato al primo incontro. L'appuntamento col terrore era soltanto
rimandato: il giovedì seguente ci presentiamo del tutto ignari alla riunione
fissata e veniamo accolti da due ragazzotti che ancora non conoscevamo. Non
dimenticherò mai gli occhi azzurri dello Zacchi dilatarsi e iniettarsi di
sangue alla nostra vista: 'Carne fresca! Ben arrivati, marmocchi! Vi
faremo schiantare!'. E mi fissava paonazzo mentre ripeteva 'schiantare!'.
Ma era un bullismo sano, vissuto con maschia e cameratesca vigorìa. Sì,
stocazzo. Io, cresciuto come un topo domestico, ero turbatissimo, e quando
realizzai che nessuno di loro era il mio caposquadriglia mi feci coraggio e li
minacciai fieramente, sicuro dell'imminente autorità superiore. Ma avevo
completamente frainteso il contesto. E quando, mezz'ora più tardi, arrivò
finalmente il suddetto, ricevetti la mia prima dose di cognacchini multipli.
Quella
e altre sevizie valsero nondimeno a fare di me un vero uomo. Oltre ad
istillarmi una violenza repressa che può scatenarsi reattivamente nel più
casuale o impensato dei momenti avversi. Ma è una cosa propria solo del primo
anno, quasi che volessero persuaderti a lasciare mentre stanno soltanto
mettendo alla prova la tua determinazione. Alla fine nessuno mi ha mai fatto
sanguinare. Hanno saputo esser pesi quanto può esserlo un sedicenne con un
dodicenne, ma poi si sono mostrati amici. E, soprattutto, sono cresciuti come
persone per bene: questo posso testimoniarlo.
Così,
se da adulto mi guardo indietro e faccio un bilancio di quella fase decennale,
devo riconoscerla come fondamentale per me, anche se fu la prima a insegnarmi
la banalità del male o a edurmi spiacevolmente sulle varie forme di
disadattamento e sociopatia. Ma era un ambiente migliore di molti altri! Di
questo le mamme possono stare sicure: fino ai 21 anni non tirai una sola
boccata di sigaretta, e tantomeno di canna, grazie solo e soltanto alla vita
sana paternalisticamente imposta dallo scoutismo.
Alzarsi
presto, praticare attività fisica di buona lena, impegnarsi in tutti i lavori e
affrontare le difficoltà sorridendo e cantando, camminare, camminare, camminare
TANTO! Per sentieri, crinali, ghiacciai, boschi neri e immensi. Ma non senza un
senso: camminare è la metafora della strada che percorri nella vita e ti aiuta
a crescere in pazienza, perseveranza, saggezza e prudenza. Il “campo mobile”
rappresenta a tal proposito un vero e proprio perfezionamento per la
costruzione delle tue palle d'acciaio: due settimane di massacranti marce
montane di 8/10 ore al giorno con 25 kg di zaino. Ricordo che in certi momenti
e in certe pendenze mi ci vollero due minuti per percorrere due metri tanto ero
rallentato dalla stanchezza. Arrivi stravolto dai dolori muscolari, monti le
tende, ceni frugalmente, espleti altrettanto frugalmente nella macchia, vai a
letto e – dopo alcune ore di per nulla riposante e leggerissimo sonno – ti
alzi, fai colazione e riparti.
Ogni
volta che, a fine giornata, arrivi al punto prefissato e ti ritrovi, per
esempio, ai bordi di un lago o al cospetto di un tramonto infinito, vedi
puntualmente la madonna e tipo lasci due terzi del tuo cuore in tutti questi
paradisi che ti hanno accarezzato stanco in un'unica sera d'estate dei tuoi
sedici, diciassette, diciott'anni. Dopo una cosa del genere non accetti più
spiegazioni da nessuno. Perché hai respirato. Ma il campo mobile è una sfida
particolare, per quando sei grande, una tantum. Per lo più, infatti, il
campo è fisso. E meno male.
E
poi (ongoing list): costruirsi con legna e pietre un forno, una cucina e
un tavolo, montare e smontare le tende. Trarre alimentazione per l'energia
elettrica dal fiume vicino con una mola rotante e una dinamo. Giocare a immensi
e medievali giochi di ruolo per 72 ore filate, con garanzia di maggior successo
per le azioni notturne. Fare il bagno al
fiume. Flirtare. Discendere un fiume con una zattera di legno costruita da noi
(dire rafting potrebbe non rendere l'idea). Bivaccare la sera davanti a
un fuoco. Vegliare la notte alle stelle. Intonare il canto di buonanotte
nell'oscurità silente di una radura alpina a strapiombo sul vuoto, quasi ultimi
al mondo. Dormire all'addiaccio su un costone appenninico, a quasi duemila
metri, senza tenda, e venir svegliati alle 4:14 dalla pioggia che ti sferza le
guance. Momenti della vita che levati.
E
queste sono solo alcune delle cose che potrei raccontare, per quanto le più
rivelatrici restano quelle che la tradizione scout impone di tramandare solo
internamente. L'ultima poesia dei lupi. Non è roba per voi, siete troppo
smaliziati. In un altro capitolo dovrei poi parlare del ruolo impeccabile
quando non fraterno degli educatori, ma questo aspetto è anche (buon per loro!)
quello meno adatto alla mia distorsione parodistica. Mi limito a lasciare una
mia stringata testimonianza: ho dormito sette notti di fila con un prete da
soli in tenda nel bosco e non starò a ricamarci su: in ogni caso non venite a
darmi lezioni di filologia biblica o patristica.
Pertanto
tutte le cose che potrete portate come argomento svalutativo dovranno comunque
scontrarsi con questa granitica realtà. Di certo agli scout ebbi meno problemi
che a catechismo, dove alla sei giorni di meditazione pre-cresima di
Vallombrosa tentarono di incarotarmi: dovetti berserkare. Ricordo ancora con
soddisfazione il grido di resa del Fallani: 'Occhio, ragazzi! Si sta
trasformando!'.
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