lunedì 4 giugno 2018

W GLI SCOUT! di Narciso Fenice Ramparti

Molti di voi, negli anni, si son fatti un'idea dei boy scouts che sta agli antipodi della realtà. Mia madre non fece eccezione e mi iscrisse de auctoritate, credendo di affidarmi a una sorta di plagiante seminario per poveri.

I molteplici livelli di traumaticità che dovetti fronteggiare erano stati solo in parte preventivati dalla mia fulgida genitrice, sempre sollecita nell'infilarmi con ingannevoli sorrisi in fosse di serpenti per vedere come me la sarei cavata. Però era contenta, e io mi compiacevo di compiacerla (come di dispiacerle), allora come oggi, in maniera rovinosa. In sé, e negli anni, si rivelò un'occasione formativa preziosa e stimolante, ma vi era un sinistro rovescio della medaglia nella gran quantità di tempo in cui si svolgevano attività senza il controllo degli adulti. E in cui, logicamente, poteva succedere di tutto.

Nel lontanissimo ottobre del 1987 partecipo alla c.d. 'gita d'apertura'. È il mio esordio totale e tutti sembrano, di primo acchito, relativamente gentili e cordiali. A fine giornata registro un'esperienza tutto sommato piacevole, nonostante una malcelata insofferenza che percepisco nei miei confronti da parte di alcuni ragazzi più grandi: alle mie domande entusiaste e forse snervanti rispondono infatti con cose del tipo 'machiccazzosei? Non rompere il cazzo!'.

Con altri due, ero stato affidato come 'caso problematico' ad uno scazzatissimo sedicenne di nome Simone, il quale, come ci disse, non doveva neanche essere lì e non aveva bene idea di cosa dovesse fare. Si limitò a spiegarci controvoglia cosa stesse succedendo durante i rigidamente codificati rituali comunitari, per poi raccomandarci di non fare domande se non avessimo voluto essere scuoiati.

Nella realtà, noi nuovi entrati avevamo schivato, senza accorgercene, un atroce rituale d'iniziazione: per l'assenza di un paio di tagliagole che avrebbero dovuto occuparsi di noi e che, solo per puro caso e per nostra fortuna, non avevano partecipato al primo incontro. L'appuntamento col terrore era soltanto rimandato: il giovedì seguente ci presentiamo del tutto ignari alla riunione fissata e veniamo accolti da due ragazzotti che ancora non conoscevamo. Non dimenticherò mai gli occhi azzurri dello Zacchi dilatarsi e iniettarsi di sangue alla nostra vista: 'Carne fresca! Ben arrivati, marmocchi! Vi faremo schiantare!'. E mi fissava paonazzo mentre ripeteva 'schiantare!'. Ma era un bullismo sano, vissuto con maschia e cameratesca vigorìa. Sì, stocazzo. Io, cresciuto come un topo domestico, ero turbatissimo, e quando realizzai che nessuno di loro era il mio caposquadriglia mi feci coraggio e li minacciai fieramente, sicuro dell'imminente autorità superiore. Ma avevo completamente frainteso il contesto. E quando, mezz'ora più tardi, arrivò finalmente il suddetto, ricevetti la mia prima dose di cognacchini multipli.

Quella e altre sevizie valsero nondimeno a fare di me un vero uomo. Oltre ad istillarmi una violenza repressa che può scatenarsi reattivamente nel più casuale o impensato dei momenti avversi. Ma è una cosa propria solo del primo anno, quasi che volessero persuaderti a lasciare mentre stanno soltanto mettendo alla prova la tua determinazione. Alla fine nessuno mi ha mai fatto sanguinare. Hanno saputo esser pesi quanto può esserlo un sedicenne con un dodicenne, ma poi si sono mostrati amici. E, soprattutto, sono cresciuti come persone per bene: questo posso testimoniarlo.

Così, se da adulto mi guardo indietro e faccio un bilancio di quella fase decennale, devo riconoscerla come fondamentale per me, anche se fu la prima a insegnarmi la banalità del male o a edurmi spiacevolmente sulle varie forme di disadattamento e sociopatia. Ma era un ambiente migliore di molti altri! Di questo le mamme possono stare sicure: fino ai 21 anni non tirai una sola boccata di sigaretta, e tantomeno di canna, grazie solo e soltanto alla vita sana paternalisticamente imposta dallo scoutismo.

Alzarsi presto, praticare attività fisica di buona lena, impegnarsi in tutti i lavori e affrontare le difficoltà sorridendo e cantando, camminare, camminare, camminare TANTO! Per sentieri, crinali, ghiacciai, boschi neri e immensi. Ma non senza un senso: camminare è la metafora della strada che percorri nella vita e ti aiuta a crescere in pazienza, perseveranza, saggezza e prudenza. Il “campo mobile” rappresenta a tal proposito un vero e proprio perfezionamento per la costruzione delle tue palle d'acciaio: due settimane di massacranti marce montane di 8/10 ore al giorno con 25 kg di zaino. Ricordo che in certi momenti e in certe pendenze mi ci vollero due minuti per percorrere due metri tanto ero rallentato dalla stanchezza. Arrivi stravolto dai dolori muscolari, monti le tende, ceni frugalmente, espleti altrettanto frugalmente nella macchia, vai a letto e – dopo alcune ore di per nulla riposante e leggerissimo sonno – ti alzi, fai colazione e riparti.

Ogni volta che, a fine giornata, arrivi al punto prefissato e ti ritrovi, per esempio, ai bordi di un lago o al cospetto di un tramonto infinito, vedi puntualmente la madonna e tipo lasci due terzi del tuo cuore in tutti questi paradisi che ti hanno accarezzato stanco in un'unica sera d'estate dei tuoi sedici, diciassette, diciott'anni. Dopo una cosa del genere non accetti più spiegazioni da nessuno. Perché hai respirato. Ma il campo mobile è una sfida particolare, per quando sei grande, una tantum. Per lo più, infatti, il campo è fisso. E meno male.

E poi (ongoing list): costruirsi con legna e pietre un forno, una cucina e un tavolo, montare e smontare le tende. Trarre alimentazione per l'energia elettrica dal fiume vicino con una mola rotante e una dinamo. Giocare a immensi e medievali giochi di ruolo per 72 ore filate, con garanzia di maggior successo per le azioni notturne.  Fare il bagno al fiume. Flirtare. Discendere un fiume con una zattera di legno costruita da noi (dire rafting potrebbe non rendere l'idea). Bivaccare la sera davanti a un fuoco. Vegliare la notte alle stelle. Intonare il canto di buonanotte nell'oscurità silente di una radura alpina a strapiombo sul vuoto, quasi ultimi al mondo. Dormire all'addiaccio su un costone appenninico, a quasi duemila metri, senza tenda, e venir svegliati alle 4:14 dalla pioggia che ti sferza le guance. Momenti della vita che levati.

E queste sono solo alcune delle cose che potrei raccontare, per quanto le più rivelatrici restano quelle che la tradizione scout impone di tramandare solo internamente. L'ultima poesia dei lupi. Non è roba per voi, siete troppo smaliziati. In un altro capitolo dovrei poi parlare del ruolo impeccabile quando non fraterno degli educatori, ma questo aspetto è anche (buon per loro!) quello meno adatto alla mia distorsione parodistica. Mi limito a lasciare una mia stringata testimonianza: ho dormito sette notti di fila con un prete da soli in tenda nel bosco e non starò a ricamarci su: in ogni caso non venite a darmi lezioni di filologia biblica o patristica.

Pertanto tutte le cose che potrete portate come argomento svalutativo dovranno comunque scontrarsi con questa granitica realtà. Di certo agli scout ebbi meno problemi che a catechismo, dove alla sei giorni di meditazione pre-cresima di Vallombrosa tentarono di incarotarmi: dovetti berserkare. Ricordo ancora con soddisfazione il grido di resa del Fallani: 'Occhio, ragazzi! Si sta trasformando!'.

 

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