Indossa grandi occhiali neri
per rimbalzare gli occhi del mondo. Non basta doversi difendere ogni secondo, a
fatica, tra quelle quattro mura che dovrebbero essere casa. Un tempo che quasi
non ricorda più, avvertiva tutto così sicuro, ascoltava quella voce delicata e
intingeva lo sguardo in quel timido sorriso.
Poi qualcosa è cambiato. Un
fatto, più fatti, o forse qualche misfatta. Ed è così che tutto si è annebbiato
nel macigno di mente che si ritrova. Si domanda se possa essere stata la perdita
di quel maledetto posto di lavoro a scatenare l’ira cieca che pensava non
potesse celarsi da nessuna parte. Perlomeno dentro di lui.
Si erano conosciuti al
liceo, lui aveva un paio di anni più e guidava, senza casco, una vespa dipinta
tutta d'azzurro. Si erano incontrati nei corridoi e si erano scambiati uno
sguardo lungo tre passi. A fine giornata lui l'aveva fermata all'uscita della
scuola, offrendole un passaggio. Lei, mai coraggiosa nella vita sino a quel
momento, aveva risposto il primo e convinto sì. Quel passaggio verso
casa era ben presto diventato l’alibi per una breve escursione pomeridiana
sulla spiaggia più vicina. Da quel giorno si frequentarono, in modo assiduo,
con la foga tipica dell'adolescenza, perché ogni istante non condiviso sembrava
essere perduto, privato di senso. Giorno dopo giorno, sino a quando, dopo
qualche anno, lui aveva cominciato a lavorare, e lei pure. Senza pensarci due
volte, avevano deciso di andare a vivere insieme per non perdersi nemmeno una
briciola di quei momenti sin troppo preziosi.
Durante i primi mesi di
convivenza qualcosa è cambiato. Lui si è fatto più rabbioso, introverso, e lei
non riusciva ad afferrarne il motivo. Si limitava ad abbozzare una domanda e
lui si faceva ancora più ostile.
Poi, un giorno nuvoloso come
tanti, lui ha perso il lavoro. Con la stessa facilità con cui si smarrisce un
mazzo di chiavi. Lei lo ha scoperto quasi due mesi dopo, quando aveva
incontrato un'amica comune che si dispiaceva per quel fatto che ignorava. Così è
tornata a casa, ha domandato timidi chiarimenti, e lui le ha scagliato addosso
un piatto che le è finito sulla spalla, per poi terminare la sua corsa sul
pavimento, in milioni di piccolissimi pezzi.
Così si è inaugurata la sua
nuova relazione, quella con la violenza. Un uomo irriconoscibile, un mostro che
dimorava nella sua stessa dimora e, ancora peggio, tra le pieghe delle sue
emozioni tanto ingenue e inconsapevoli. Ha continuato a non capire, a
domandarsi e a domandare il perché, ottenendo soltanto schiaffi sul volto,
pugni all’altezza dello sterno, un campionario interminabile di oggetti
scagliati addosso e urla che non potevano appartenere a lui. Era certa che non
potesse essere la sua voce. Dubitava che potesse trattarsi della stessa persona
che amava proprio per quella sua dolcezza così pura, sterminata. Ma forse
quello era il passato. Un passato sfumato in un presente di paura, tormento e
dolore. Un presente di silenzi e di voluminosi occhiali neri.
Cammina nella città di
sempre. Con gli occhi avvolti da lenti scurissime e lacrime che soffocano
dentro agli occhi. Si infila nel solito parco e si siede su una panchina
qualsiasi. Prende lo smartphone e cerca su google i vari contatti di
associazioni che difendono le donne vittime di violenza. Sono sempre gli stessi
siti, a cui manca soltanto la stellina gialla dei preferiti. Li scorre, legge
qualche articolo a caso e chiude le pagine, cercando un'amica per confidare
quel tormento che fa fiorire lividi sulla sua pelle liscia. E' troppo tempo
ormai, mi prenderebbero per una scema, si dice, cancellando la cronologia
di quei siti che potrebbero aiutarla e riponendo il telefono al sicuro nella
borsa. Ferma, immobile, si limita a scrutare la tranquillità che scorre in quel
parco da dietro quelle lenti che le isolano gli occhi chiari, e l'occhio nero.
Passano due ragazzini con lo
skate e la fissano con una certa insistenza. Lei non sa perché, non vuole
immaginarlo, non può. China lo sguardo, impaurita e vittima di una vergogna
assassina. Non appena schizzano via, solleva il volto verso il cielo come per
cercare un etereo conforto. Il cielo è nitido, ci sono poche nuvole che
scorrono veloci. Le osserva allontanarsi. Se soltanto potessi essere così
leggera. Rimane a fissarle mentre scompaiono dalla sua visuale, oltre le
fitte chiome dei longilinei pini marittimi.
La raggiunge un velo di
magone e, questa volta, decide di lasciarlo scorrere sulle guance ancora
indolenzite dal dolore. D'un tratto, da dietro una folta pianta di azalea,
spunta un gatto, miagolante, magro e nero, che le si avvicina e comincia a
strusciarsi sulle caviglie. Lei lo accarezza e lui offre la sua testolina per
essere grattato come si deve. Il gatto inizia a fare le fusa e dopo qualche
istante sale sulla panchina e riprende a strusciarsi vicino alla pancia di lei.
Lo guarda e continua ad
offrirgli le carezze che fanno bene a entrambi. Poi il gatto si sdraia sulla
sua pancia, sollevando il piccolo muso nero, ancora in cerca delle sue mani
soffici. Lei si stupisce. Forse l'amore è ancora possibile. Il
gatto serra gli occhi tinti di giallo e si lascia andare a un riposo cadenzato
da fusa profonde, sincopate. Lei lo avvolge e si lascia avvolgere, senza
sorridere, soltanto immortalando il momento, bagnato da un bel sole caldo.
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