E
ora ho messo anche te fra i miei demoni. Ti ho messo lì fra altri per non
chiamarti fallimento, per non
chiamarvi
tutti fallimenti e deprimermi per delle sciocchezze. Perché tali siete,
sciocchezze e fallimenti. Ma
la
constatazione del secondo aspetto mi procura tuttavia un tale fastidio
malinconico all’inizio, che
velocemente
sfila in una greve amarezza, la quale oscura la vostra reale natura di
sciocchezze, che ho
deciso
di ingigantirvi ed allo stesso tempo ingentilirvi, nobilitarvi, facendovi
divenire demoni.
Demoni
quindi. Pensieri con cui misurarsi, provare la propria forza d’animo, la
propria capacità di far fronte
alla
paura, all’inquietudine, allo smarrimento in grandi cose sconosciute.
A
volte riesco sì ad affrontarvi, altre devo ritirarmi , ma a questo punto siete
demoni, sono del tutto
giustificata,
nessuno mi potrà accusare se non sarò riuscita a misurarmi con voi, e sentirò
solo
eventualmente
complimenti se sarò al contrario riuscita a tenervi testa.
Demoni
che parlano a due voci. Si fanno belli del loro nuovo stato ed alzano la voce,
tronfi e bulli, invitando
ad
un battagliero confronto e che poi all’improvviso, come un cantante che perde
improvvisamente la voce
nel
mezzo di un assolo, lasciando l’intero teatro frastornato ed incredulo, parlano
nuovamente con
l’accento
chioccio e filiforme del fallimento.
Una
nota stonata nell’ordine ristabilito fra i pensieri.
Demoni
che celano l’inganno, demoni ridicoli, demoni veri. Quelli che celano il volto
crudo ed osceno della
sofferenza.
Mio
padre che annaspa con le mani in aria, cercando la mia mano che insegue la sua,
scarna ed ingiallita,
raccoglie
le ultime forze per mormorare che ha paura e non vuole morire, come se io
potessi farci
qualcosa,salvarlo.
Mia
madre che mi guarda dal cuscino, ed all’improvviso il suo sguardo è vacuo,
perso dietro ad un punto
che
solo lei fra tutti può cogliere, può seguire, finchè quello sguardo si perde
del tutto, si fa fisso ma senza
osservare
nulla.
Animali
amati, che attendono l’ultima carezza per esalare un profondo respiro, che li
priva per sempre
dell’aria
e della luce.
I
demoni che non hanno bisogno di voce, vivono di immagini ancora vivide, di
ricordi che scottano l’anima
come
una fiammella la pelle.
Convivono
con gli altri con la tranquillità data da un naturale e consapevole senso di
superiorità, per il
quale
basta alzare un sopracciglio e stendere una mano per tacitare il cicaleggio
della piccola folla querula e
stupida,
per avviare discorsi infine seri.
Ed
ogni cosa è di nuovo ordinata, si acquieta, si arrotola come un gatto pasciuto
prima di rifarsi tigre della
sfida,
animale notturno della sofferenza, scimmia dello scherno, aquila del raro volo
sereno e distaccato.
Chi
sconfiggerà i demoni? Io? Lo voglio? E’ necessario? E’ possibile? E’ possibile
sceglierne alcuni e non
altri?
Davvero posso decidere di quali ho bisogno, di quali posso fare a meno? E
addirittura posso decidere
che
alcuni di loro riacquistino mestamente la veste di poveri fallimenti?
Poi
ho pensato che i demoni vivono di vita propria, ormai li ho consegnati ad una
loro esistenza autonoma
sulla
quale non ho più potere di decisione e d’azione. O non l’ho pensato, l’ho
deciso per mia comodità o
sopravvivenza,
perché lo stesso pensiero dei miei demoni stava diventando il demone più grande
di tutti.
E
li ho guardati accomodarsi fra le ombre della sera, che si allungano dopo il
picco del sole, che poi
noncurante
gira le spalle e si sdraia oltre l’orizzonte: nessun demone per lui, solo luce
che si alza, viaggia
alta
fra le nuvole e si attenua, rincorrendo il suo padrone.
Ed
abbiamo ascoltato insieme il richiamo degli uccelli che sfrecciano al
crepuscolo, i rumori misteriosi del
primo
buio, ed un grillo sperduto che parlava a sé stesso, o anche lui ai suoi
demoni.
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