Per me è soltanto ventidue. Non so il
suo nome e, detto francamente, non so se riuscirò mai a conoscerlo.
Sarà colpa della vita cittadina, dove si dice
che nessuno conosca più nessuno. O magari per il fatto che io sia tra le
persone più introverse che abitino questo angusto angolo di terra.
Vivo in città ma esco di rado. Non usufruisco
delle numerose risorse culturali, artistiche, sportive e sociali che mette a
disposizione la metropoli. A me non importa molto, visto che cerco di stare a casa
più tempo possibile. Non perché sia un Hikikomori o perché sia avvezzo all'uso
di antidepressivi; la realtà è che sono innamorato, in maniera quasi folle, di
una ragazza senza nome che vive proprio di fianco al mio piccolissimo
appartamento.
Non sto parlando di una ragazza qualsiasi, ma
di ventidue, come il numero che compare sul suo citofono e che
rappresenta uno dei pochi dettagli che conosco di lei e della sua vita.
Ventidue vive
sola, proprio come me. E' spesso in casa e questa, per me, è una grandissima
fortuna. Mi capita di sentirla mentre suona la chitarra e canta con una voce
che quasi sfiora la perfezione. Non appena avverto che poggia le dita sulle
corde della chitarra, soltanto per accordarla, punto l'orecchio al muro e poi
chiudo gli occhi. In quel preciso istante, immagino di essere lì, proprio di
fianco a lei, ad osservarla con gli occhi spalancati e le orecchie piene di
sollievo.
Ogni tanto mi capita di incrociarla mentre si
arrampica su per le scale con una busta dell'Esselunga, con addosso quei
vestiti neri, la frangetta scura quasi fino agli occhi, perfetta, ed i capelli
lisci fino alle spalle, e tento di non scostare lo sguardo. Provo a non
abbassarlo o a spostarlo fuori dalla sua traiettoria visiva, ma ogni volta
fallisco e i miei occhi fuggono lontani, contro la striscia di muffa del
vecchio muro che ci sfiora, contro una
fioriera di pelargoni che riappare, puntualissima, ogni primavera, o
addirittura contro il nido di rondini, ormai disabitato da anni, che avvolge un
angolo del sottotetto.
Certo non è sempre così; una volta sono anche
riuscito a sorriderle, e quella volta lei ha ricambiato, salutandomi con quel ciao
che ha risuonato in modo meraviglioso fra quelle ripide rampe scale tutte in
cemento. Quella volta ero riuscito a guardarla negli occhi, per qualche
istante, ma soprattutto ero riuscito a ricevere il suo primo sguardo. Credo sia
stato proprio in quel momento che ventidue ha scoperto la mia esistenza.
Così sono rientrato a casa e mi sono stappato
una birra per festeggiare il grandissimo evento. Ho brindato a lei, mettendomi
vicino a quella parete sottile che ci divideva, sorseggiando e rimanendo
soltanto ad ascoltarla.
Mi capita di tornare a casa, dopo ogni eterna
giornata di lavoro, e di rimanere fermo, anche per ore, in cerca dei suoi
movimenti. Provo ad ascoltarli, ad immaginare cosa stia facendo, e come stia
passando il tempo in quel monolocale esattamente speculare al mio.
Così la sento mentre prepara qualcosa di
rapido da mangiare e inizia a spadellare con una certa irruenza, o quando si
lava i capelli e poi aziona il phon, quando ascolta la musica e persino quando
va a letto; non per altro, ma le molle del suo letto fanno un rumore metallico
che potrebbe richiamare l'intero quartiere.
Mi fermo a captare ogni suono e tento di
dargli un nome, un motivo, un colore e ad immaginarne tutta la sua essenza, del
momento e di lei, che si muove in quella piccola stanza proprio di fianco alla
mia, inconsapevole della mia presenza e del mio affinatissimo ascolto.
Poi, tra i vari momenti della giornata, arriva
il momento più atteso: quando comincia a provare con la chitarra e ad emettere
vocalizzi con la bellissima voce che possiede. Ed è in quel preciso istante che
il corpo diventa un solo immenso orecchio e smetto di fare qualsiasi altra cosa
io stia facendo.
Da quel momento in avanti infatti non riesco
più a fare altro, nemmeno a far finta. Mi metto in religioso silenzio di fianco
alla parete e ascolto tutto quello che lei riesce a trasmettermi. E' in
quell'istante che non esiste più alcun muro che possa dividerci e riusciamo ad essere nel medesimo
appartamento, sotto lo stesso vecchio tetto.
Quando termina le prove casalinghe, io mi
avvicino allo stereo e faccio partire “Heroes” di Bowie a tutto volume. Per me
è una specie di rituale, una sorta di ringraziamento per le emozioni che ogni
volta riesce a far filtrare oltre quel muro di cartongesso che è sempre troppo
spesso. Possano essere una, due, tre oppure quattro volte. Mi metto a cantare
pure io, come se fossi uno dei due eroi della canzone, separati da quel muro
tanto più lungo e robusto del nostro.
Una volta mi è anche capitato di sentirla
canticchiare sopra la nostra canzone. Abbiamo fatto una sorta di duetto
inconsapevole, separati soltanto da quella umida parete di una vecchia casa in
corte. Io ho continuato a cantare mentre lei si è limitata al ritornello.
E' stato in quel momento che ho capito di
possedere una sottilissima speranza. Forse la prossima volta che la rivedrò lei
si fermerà in mezzo alle scale, e magari canticchierà la nostra canzone per
farmi capire che lei ha capito tutto, o probabilmente mi fisserà per qualche
istante, lasciando la busta dell'Esselunga accasciarsi sul gradino e poi mi
abbraccerà, prima di darmi quel bacio che stavamo aspettando da troppo tempo.
O forse non accadrà niente di tutto questo, ed
io continuerò a corteggiarla, inchiodato a quel finto muro che ci divide, e a
sfuggire con lo sguardo ogni volta che la incontrerò, consapevole che quel
benedetto giorno, quello della canzone, per me e per noi, potrebbe non arrivare mai.
Nessun commento:
Posta un commento