giovedì 31 ottobre 2019

ET NUNC MANET IN ME di Roberta Sandrini


Non trovo altro rifugio che in me stessa. Tu stessa lo vedi, non ho altro. Prima c’eri tu. E tuttora non so dire se dentro di me cerco e trovo la persona che sono o che sono diventata o il ricordo di te. Non farti ingannare dalle luci e dalle risate e dai sorrisi con cui ricopro la superfice della mia vita. Come il mare, tranquillo o agitato in superficie, immobile intorno al fluire delle correnti nel profondo, così sono io, con onde alte o appena increspate all’esterno, stretta intorno al fluire di quel che resta di me e di te all’interno. E lì intorno è il nascondiglio, il guscio, la tana, il rifugio appunto.
Per tanti aspetti tutto è continuato come prima, quando te ne sei andata. Sono piccole cose, quelle su cui il pensiero indugia. Una voce che rimprovera il gatto in cucina, la domenica mattina; un vecchio profumo; la mania dei pizzi e delle trine. Del resto è normale, solo i grandi personaggi o i pessimi soggetti lasciano ricordi di altro tipo e di un altro peso, tutti gli altri, quando si fermano, mandano avanti con chi continua a camminare questi pezzi di piacevole nullità.
Indugio, indugio e diventa quasi un gingillo, un mezzo divertimento: non mi sembra di ricordarti adeguatamente, con rispetto, allora smetto.
Non sei mai venuta a trovarmi, in un sogno, in una visione ad occhi aperti o in una di tutte quelle altre occasioni di cui parla chi riesce a comunicare con qualcuno che non c’è più.
E quindi piove, piove piano ma continuamente, insistentemente, piove a scroscio, a lampi, tuoni e fulmini, e tu che odiavi la pioggia non ci sei per lamentarti; torna la primavera, risbucano fuori i piccoli fiori di cui quasi non ricordavamo le forme e i colori, e tu non ci sei per dire quanto ti piacciano; torna l’estate, il sole alto e un’umida coltre di caldo in basso, e tu non ci sei per lamentarti; tornano i frutti di cui eri golosa, le crinoline che adoravi, i contrattempi che incontravano il tuo disappunto e tu non ci sei, ogni volta, per poter dire la tua.
Dicono alcuni che succeda perché qualcuno ormai è in pace, lontano dalle cose terrene, e lo dicono con convinzione, come ne avessero un’esperienza diretta. Sì può essere, anzi nel tuo caso certamente sarà così, considerato come eri buona e gentile, quindi totalmente inadatta alle cose di questo mondo, e come hai sofferto nell’ultimo periodo, più che per i problemi fisici, per la profonda ingiustizia di ciò che ti stava succedendo, a te che non avevi mai fatto del male a nessuno né avevi pensato di farne.
E tuttavia mi sarebbe utile, mi sarebbe quantomeno di grande conforto, una tua visita anche breve: ma come ho già detto non succede.
E allora indugio, indugio, nel pensiero dei fiori, della pioggia e delle crinoline, perché non posso fare altro né altro mi rimane.
Cos’è un rifugio? Il rimedio alle ansie di un pauroso o il luogo, il momento, della tregua del coraggioso? La meditazione del solitario o la pausa alternativa del mondano? Un posto tranquillo e soleggiato o una tana buia? La pace o un rimanere fermi armi in pugno? E’ materia o pensiero o entrambi insieme o entrambi separatamente?
Sei il mio rifugio anche se non vuoi, anche se non vieni, anche se mi lasci solo sprazzi di ricordi: mi dispiace, non ho altro.
Del resto forse non ho neppure bisogno di una tua visita d’approvazione o di incoraggiamento: ci sono scelte che facciamo prescindendo da chi abbiamo intorno. L’ho fatto spesso mentre c’eri, lo ammetto, senza pensare a cosa avresti provato perché mi sentivo comunque certa della tua comprensione o di una tua successiva approvazione: continuerò come ho sempre fatto.

Solo che adesso, non so perché, per la prima volta penso alla possibilità di ferirti o anche solo di darti fastidio: proprio ora che nulla può più sfiorarti o impensierirti. Buffo o strano, non lo so.
E indugio, indugio in tutti questi pensieri, per noia, per divertimento o semplicemente per stare insieme a te: mi perdonerai, lo so, aldilà di ogni comprensione o approvazione, preventiva o tardiva, questo lo hai sempre fatto. Dicono sia una prerogativa dei genitori, delle madri in particolare, che chi non ha generato impara, se impara, in molto tempo e con grande difficoltà.
E’ sera, una luce violetta filtra da dietro la facciata del palazzo di fronte.
Esco stringendomi nel cappotto: non è ancora quello pesante ma sai che sono tremendamente freddolosa.
A destra, lungo il fiume, poco sopra le cime degli alberi, c’è una frangia di nuvole basse che si sfalda e si ricompone, avvolgendosi su se stessa e ricadendo sull’orlo delle altre nuvole rimaste ferme: sembra una tonda crinolina all’uncinetto.
Le giornate sono ancora tiepide ed un unico, ultimo fiore, fa capolino da una pianta. E’ un ciuffetto bianco e rosa, dai petali rigidi. E’ un asfodelo. Non ricordo se tu mi abbia mai detto se li amavi particolarmente o meno, ma credo proprio di sì. Del resto tanti di questi fiori circondano il tuo piccolo paese, ed il luogo dove stai adesso, arrivando quando ne hanno voglia, estate, inverno o primavera. Sembrano tua figlia.
Ti piaceva l’autunno, sì ti piaceva: ti piacerebbe questa serata colorata di tenue e profumata di soffice.
Indugio e alla fine sorrido.      

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