giovedì 31 ottobre 2019

UN'OMBRA NELLA NOTTE di Carlo Banchieri


Ogni realtà è un inganno.
(Luigi Pirandello)



Fui chiamato al telefono in piena notte. In quel momento me ne stavo comodamente sprofondato nella mia poltrona, senza le scarpe ai piedi e con le gambe distese in avanti.

Dall'altra parte c'era, come sempre, la solita voce cavernosa e fredda. Erano le tre del mattino, ma per me non era ancora arrivata l'ora di andare a dormire. Seduto proprio di fianco
all'apparecchio, mi trovavo invece a meditare, ripensando alla brutta storia che aveva coinvolto me ed il mio collega la settimana prima, e quindi risposi immediatamente, dopo il primo squillo.
Sapevo esattamente chi fosse. Solo il mio Capo infatti aveva il mio numero di casa e soltanto lui, oltretutto, avrebbe avuto l'ardire di telefonare ad un'ora del genere. Tenendo la cornetta con la mano destra, con l'altra cercavo a tastoni sul tavolino il pacchetto di sigarette.
“Capo, sei tu?” domandai.
“Ne abbiamo trovato un altro. Ho bisogno di te, immediatamente!” rispose con voce arrogante
e autoritaria.
“Non puoi proprio farne a meno? Stavo dormendo così bene...”
“Non prendermi per i fondelli, lo so benissimo che sei appena rientrato! Affacciati!” tuonò allora lui.

Riuscii finalmente a trovare le sigarette. Ne accesi una e aspirando mi alzai dalla poltrona, mi accostai alla finestra e guardai fuori.
Vidi il Capo sul lato opposto della strada gesticolare animatamente.

“Mi vedi, Benito? Sono seduto proprio sul cofano della tua macchina ed è ancora dannatamente caldo!”

La sua voce tornò a tuonare dall'altro capo dell'apparecchio.
“Di cosa si tratta? Posso prima vestirmi?” risposi io, irritato.
“Ti do cinque minuti!”
Riagganciai la cornetta e tornai alla finestra. Fu così che mi accorsi della presenza di un'altra persona vicino alla mia automobile. Un uomo si era accostato al Capo e mi parve che gli stesse parlando mostrandogli un piccolo taccuino.
 La luce del lampione lo illuminava: era un tipo robusto e con le braccia tatuate.
“Sarà un informatore.” pensai.
Osservando meglio, al di là della strada e poi giù, sotto al portone, potei distinguere anche un notevole numero di agenti in divisa. Normalmente non mi sarei preoccupato più di tanto, ma più li osservavo e più avevo la sensazione, dal modo in cui si erano disposti, che stessero lì per fare la posta a qualcuno.
Quando vidi l'uomo tatuato indicare la mia finestra al Capo, che intanto gesticolava come per dare disposizioni, non ebbi più alcun dubbio.

Era proprio me che stavano aspettando. “Al diavolo, se deve essere fatto, che sia fatto e basta!” mi dissi versandomi un goccio. Tornai verso il letto, raccolsi le mie scarpe di cuoio nero e le misi ai piedi. Poi indossai la giacca di pelle, presi la pistola, il distintivo e uscii.
Chiamai l'ascensore, ma poi scesi giù per le scale.
Ero abituato a fare così da sempre, ma negli ultimi giorni, da quando era accaduto quel fattaccio, nel farlo non mi sentivo affatto tranquillo, anzi continuava a tornarmi alla mente la brutta esperienza che avevo avuto con quei tossici in un palazzo della periferia, la settimana precedente.

In quella circostanza io e il mio collega eravamo andati là per controllare la veridicità di alcune informazioni che avevo avuto da una delle mie fonti. Credo che, purtroppo, ci avessero visto arrivare, o forse avevano saputo da qualcuno del nostro arrivo. Sta di fatto che ci aspettavano al varco, al terzo piano di quel dannato edificio.
Ricordo che premetti il pulsante di chiamata dell'elevatore e poi andai su a piedi fino ai piani superiori. Dissi al collega di salire da solo, perché questo ci avrebbe dato modo di coprire un'area maggiore. Ero ancora al secondo piano, quando udii tre spari. Salii i gradini due alla volta, più velocemente che potevo. Giunsi sul pianerottolo e trovai il mio collega disteso a terra, in un lago di sangue. La mano impugnava ancora la pistola fumante, la calibro 38 che portava sempre con sé. Con la mente confusa e in preda allo sconforto, mi accorsi che non potevo fare nulla per lui. Il suo sguardo era fisso su di me. Poi, all'improvviso, con le tutta la forza che gli era rimasta, mi afferrò per il collo e, bisbigliandomi con voce strozzata, pronunciò le sue ultime parole: “Che mi hai fatto, Ben?”
Sul momento, le mani e i vestiti intrisi del sangue del mio collega, non capii il significato di quelle parole. Poi vidi un'ombra scivolare giù per le scale antincendio e senza pensarci mi lanciai all'inseguimento di colui che ritenevo avesse ucciso il mio collega. Scendemmo giù di corsa per le scale di ferro, l'uno dietro l'altro, tanto vicini che più di una volta mi sembrò di poterlo afferrare con la mano, ma, una volta in strada, persi le sue tracce e mi ritrovai nel buio più completo.

“Fatti vedere, vigliacco!” urlai.
Non ebbi risposta.
“Giuro che ti prenderò!” urlai ancora.
Corsi fin sulla strada principale. Niente. Di fronte a un negozio di liquori, notai quello che mi
sembrò un vecchio barbone. Spingeva un carrello della spesa, ma poi lo lasciò fuori, sul marciapiede, e fece per entrare all'interno. Non c'era nessun altro in giro e d'istinto mi diressi verso di lui. Avvicinandomi notai che indossava delle scarpe di cuoio nero, troppo lucide, però, troppo pulite, per un vagabondo.
“Ehi, tu!” lo chiamai.
L'uomo per un istante indugiò.
Si voltò verso di me e dopo un attimo di esitazione scivolò velocemente all'interno del negozio. Mi precipitai dall'altra parte della strada e, giunto di fronte alla piccola vetrina, estrassi la pistola dalla fondina ed entrai. Una volta dentro, mi accucciai cercando di intravedere qualcuno attraverso gli scaffali, o di carpire un rumore che mi indicasse la posizione dell'uomo. Nessuno.
Mi parve di notare una figura muoversi furtivamente tra i ripiani stracolmi del negozio e un attimo dopo, ancora una volta, scivolare via.
Ebbi di nuovo la sensazione di essergli talmente vicino da poterlo acciuffare. Allora mi alzai di scatto, lanciandomi verso di lui.
Correndo attraverso il locale mi ritrovai alla porta sul retro. Uscito fuori sul piccolo cortile, mi resi conto che dell'uomo non c'era più traccia. Mi parve di vedere come un'ombra passarmi accanto, lungo il muro. Feci per afferrarla ma... niente... in un attimo era già scomparsa. Stavo quasi per corrergli dietro quando notai per terra una fotografia, proprio vicino alla recinzione che l'uomo aveva scavalcato.
Mi avvicinai per raccoglierla, pensando che potesse essermi di aiuto per capire chi fosse colui che inseguivo. Guardai quella foto e mi colse un forte senso di smarrimento e di stupore.
Chiusi e riaprii gli occhi più volte, tentando di mettere a fuoco, incredulo di ciò che avevo appena visto. Purtroppo per me, avevo invece visto bene: c'era la mia faccia, su quella fotografia.
Solo allora capii che cosa avevo fatto.

***
Quando giunsi nell'atrio, mi accorsi che c'erano molti poliziotti ad aspettarmi in fondo alle scale. Mi guardavano con sguardi pieni di odio e di disprezzo, come se fossi un criminale qualsiasi. Di certo, non potevo biasimarli: avevo ammazzato uno dei nostri e, per di più, proprio il mio collega. Il Capo si fece avanti e mi chiese pistola e distintivo. Poi un sergente mi arrivò alle spalle mettendomi le manette ai polsi.
“Non è necessario. - disse il Capo fissandomi negli occhi –
Non farai resistenza... vero, Ben?”
Scossi la testa.
“Dovrai darci molte spiegazioni.” aggiunse poi.
Io non risposi e lo seguii sull'automobile che mi avrebbe condotto in Centrale.
Per quanto riguarda le spiegazioni che voleva, non avrei saputo proprio da dove cominciare.

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