venerdì 31 gennaio 2020

ACCADDE A NOVEMBRE di Carlo Banchieri


Budapest.
23 ottobre 1956.
Andris non è andato in fabbrica a Csepel.
Si è unito alla folla radunata sotto il grande monumento a Stalin.
Lì, sul viale Dozsa Gyorgy, ci sono migliaia di cittadini che, come lui, sono scesi in piazza a
manifestare.
Il suo cuore batte forte.

Quella moltitudine di gente in tumulto spinge così tanto che il mostro di bronzo cade dal suo
piedistallo e si frantuma in mille pezzi.
Si levano grida e urla di gioia. Finalmente, la città si è liberata del simbolo più odiato e
ingombrante della dittatura.
L'effigie della loro oppressione è stata finalmente abbattuta.
Andris inizia a colpire col suo martello. Una gran bella sensazione.
Poi, i pezzi della statua vengono sparsi per tutta la città e, per la prima volta, il popolo magiaro
sente di poter tornare ad essere libero.
Poco prima della mezzanotte, nello stesso istante in cui i fucili della polizia segreta riversano il
loro carico di morte sulla folla radunata di fronte a Radio Budapest, mentre le pallottole
fischiano e la radio socialista annuncia che masse di studenti stanno manifestando contro il
governo amico dell'Unione Sovietica, migliaia di persone continuano a chiedere a gran voce la
fine della tirannia.
Non possono sapere a che cosa stiano andando incontro.
Inizia la caccia ai membri dell'AVH, la spietata polizia di regime che per anni ha terrorizzato la
popolazione.
In poco tempo, la rivolta si infiamma. Per giorni e giorni, a Budapest si combatterà senza tregua
contro i soldati sovietici inviati a reprimere la ribellione.

4 novembre 1956.

La speranza ancora divampa nei cuori di molti.
È una fredda domenica mattina.
Non una domenica come le altre, niente a che fare con il giorno del Signore.
È ancora molto buio e Péter è ancora molto giovane.
Ha quindici anni e le gambe corte, ma è agile e si muove proprio bene in quel labirinto di strade
e vicoli che conosce praticamente a memoria. C'è da stare bene attenti ed evitare le vie
principali.

Lui sa come fare.Sotto il suo puhakalap, si scorge un faccino gentile e minuto.
Quel cappello di cencio pare davvero gigantesco sopra il suo capo. Lascia appena intravedere un
ciuffo di capelli biondi ed un paio di occhi azzurri e innocenti.
Le mani sono quelle di un bambino. Stringe a sé una sacca piena zeppa di bottiglie Molotov.
Accanto a lui c'è Andris che cammina trascinandosi dietro la sua enorme mole, con passi da gigante. Porta tre bombe a mano appese alla cintura. Fa fatica a stare al passo, a raggiungere il
gruppo.
Andris fa l'operaio da una vita.
Non è il solo.
Ce ne sono a centinaia come lui, lì intorno.
Molti altri sono barricati nelle officine e nei cantieri di isola Csepel, il quartiere operaio.
Tutti insieme. Tutti pronti.
Fino alla morte.
Quello a cui si sono uniti Péter e Andris è un contingente numeroso formatosi lì per lì, ma in
cui sono tutti accomunati da un'incredibile determinazione. Tra di loro non si conoscono
neppure, ma si cercano.
Sguardi che si incrociano.
Cuori uniti.
Sanno perché sono lì e riconoscono nel compagno a fianco lo stesso coraggio, la stessa voglia di
libertà e di giustizia.
Péter e Andris sono le due facce di quella rivolta.
Lo studente e l'operaio.
Buda e Pest.
In fondo alla strada, dove ci sono le postazioni magiare con le mitragliatrici, tra le esplosioni e
lo stridere dei cingoli, altri fratelli ungheresi gridano e sparano.
Attaccano con forza e impetuosa tenacia il nemico che sta invadendo la loro città.
Muoiono.
Ci sono decine di cadaveri ammucchiati a lato della strada, gelidi come il terreno ghiacciato dal
vento freddo dell'est.
Andris struscia pesantemente gli scarponi e respira rumorosamente per via della stanchezza e, forse, anche per colpa dei troppi bicchieri di pălinka.

Ha un bel viso, largo e pulito. La mascella è forte e squadrata.
È nata per sopportare bene quel vento così freddo.
È un alito gelido e pungente.
Oggi lo è anche di più.
È perfido e spietato.
Come i carri armati che sono entrati da poco in città per distruggere, travolgere tutto, ricoprire
con la matassa del niente le vite della gente e imbalsamarle, di nuovo e per sempre, con la
ferocia della dittatura.
Eccoli lì. Avanzano uno dietro l'altro.
Una colonna infame.
Una fila che si muove sinuosa e guadagna terreno, inesorabilmente. È come un serpente
velenoso quello che striscia lungo il viale Dozsa, mentre decine di studenti lanciano bombe sui
cingoli o scaricano contro la spessa corazzatura le cartucce dei loro fucili.
Andris si accende una sigaretta e imbraccia il fucile da caccia che porta a tracolla.
Una volta era di suo padre e non avrebbe mai immaginato di usarlo.
La voluta di fumo si disperde velocemente nell'aria. Per un istante, il freddo si attenua.
Giunto con gli altri alla barricata, uno dei nidi di resistenza più importanti, prende subito il suo
posto e saluta i ragazzi.
I russi stanno arrivando.
Andris spara a ripetizione. Prende qualche bottiglia incendiaria e la passa al ragazzino più
smilzo che vede. Con gli occhi cerca uno veloce.
Come Péter.
Proprio lui.
È uno che può lanciare la sua bomba contro al carro e fuggire ancor prima che quello ruoti il
suo potente cannone.
“Prendi! Fa' quello che puoi!” gli urla.
Sa che quel bambino è già un uomo, anche lui avrebbe fatto la sua parte.
Si comporterà bene.
A costo di attaccare il nemico coi mattoni.
La cosa importante è tentare di isolare i carri armati, attaccarli, immobilizzarli.
Se i russi si fossero arresi, avrebbero così lasciato i kalashnikov e loro li avrebbero presi.
Sarebbero andati avanti così, di carro in carro, fino alla vittoria.
Ma i carri che avanzano non sono i soliti piccoli carri usati per soffocare le rivolte.
Sono tremende e gigantesche macchine da guerra.
Tonnellate di acciaio pesante, modello Iosef Stalin.
Quando li vede, Andris non può credere ai suoi occhi. Per un attimo vacilla.
Sono davvero mostruosi.
Eppure, tra i russi, in molti si arrendono e, così, Andris può guardarli in faccia.
Sono soldati diversi da quelli che è abituato a vedere in città.
Hanno il volto asiatico. Provengono dall'estremo oriente dell'impero sovietico.
Nei loro occhi, c'è solo odio.
La radio libera trasmette al mondo un grido disperato d'aiuto.
Popoli europei…. ascoltate il suono delle campane ungheresi che avvertono il disastro imminente…
Una nube nera si fa troppo vicina. I carri sono ormai addosso alla barricata.
Andris e gli altri si ritirano sparando.
Lui corre più veloce che può e ritorna nella direzione dalla quale è venuto.
Si infila nell'intreccio di strade di Pest.
Vetrine infrante, macerie, corpi a terra. Donne, vecchi, bambini.

C'è una ragazzina con una pistola tra le mani. È ancora molto piccola.
Sta cercando qualcuno, forse suo fratello.
Pare smarrita.
“Vai a casa!”
“Fuss!”
“Scappa!”
Lei scuote la testa e si siede davanti alla soglia di un portone.
Sta perdendo molto sangue. Non si può fare nulla.
È quasi mezzogiorno.
Andris è corso con altri patrioti a rinforzare la barricata lungo il viale Stalin. Lì ci sono i
miliziani del nuovo governo e poi ancora studenti, ancora operai. Tutti sanno che quello è il
punto più importante. Se i russi sfondano, la città cade.
I più esperti in fatto di guerra distribuiscono munizioni e assegnano nuove postazioni.
Andris continua a combattere.
E intanto la radio diffonde il suo triste messaggio.
Popoli civili del mondo, vi imploriamo di aiutarci nel nome della giustizia, della libertà, dell’infrangibile
principio morale della solidarietà umana...

Ad un certo punto, Andris barcolla.
Si regge a malapena. È ferito gravemente.
Si accuccia all'angolo di una strada. Intorno a sé non vede più nessuno.
Il volto è disteso, solamente segnato da una smorfia di delusione. Non credeva che sarebbe morto così. Sperava che avrebbe visto una nuova alba.
La libertà.
Il suo animo ribolle, ma nonostante ciò pare quieto.
Si rialza e percorre il marciapiede andando incontro al carro russo che lo sta inseguendo.
La colonna intanto è poco più indietro e avanza, percorrendo quella via.
Andris spara, ancora.
Grida: “Ruskik haza!”
“Russi tornate a casa!”
Intanto, la radio trasmette...

La nostra nave affonda. La luce si attenua, le tenebre si fanno ogni ora più scure sulla terra d’Ungheria.
Ascoltate il nostro grido, popoli civili del mondo, e agite. Stendeteci la vostra mano fraterna. SOS, SOS: Dio
sia con voi...
Una raffica di mitraglia colpisce Andris che cade violentemente sul selciato.
“Sapranno chi eravamo? O la vita nel mondo andrà avanti nella consueta ipocrisia?”
Un tonfo.
Cade al suolo.
Il fucile è ancora tra le mani. Vuole sparare un ultimo colpo.
“Non sarà versata una lacrima per noi e tutto è stato inutile. Sono morto invano?”
I fuochi della rivoluzione si sono spenti sotto al passo pesante dei carri cingolati sovietici.
Andris ha paura. Non avrebbe mai detto che sarebbe finita così.
È sdraiato col ventre verso il cielo e ora può osservare da vicino il cannone dell'imponente
carro Iosef Stalin che passa di fianco a lui.
La massima potenza di fuoco è stata mandata in città per schiacciare nel sangue l'insurrezione.
Senza pietà.
Qualcuno adesso corre veloce. Passa proprio di lì.
Una voce squillante lo chiama.
Riconosce il suo giovane compagno, Péter.
“Non aver paura!” urla allora l'operaio, con tutto il fiato che gli rimane in corpo.
Così, improvvisamente, ricorda nuovamente a se stesso chi è e perché sta morendo. Tutto ha
nuovamente senso. Se ne va credendo più che mai in quel sogno, in quella bella illusione.
“Szabadság...”
“Libertà...”
Quella bella parola che sa di vita, di amore, di buono, di casa.
Andris aveva quarant'anni ed è morto a Budapest, combattendo la tirannia, straziato dai colpi di
una mitragliatrice.
Quel giorno morirono a migliaia e nessuno volle andare in loro aiuto.
Tutto ciò accadde a novembre, in una fredda domenica mattina.
Non una domenica come le altre, niente a che fare con il giorno del Signore.

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