venerdì 31 gennaio 2020

TRAVERSE di Gila Manetti





La vede dalla finestra della cucina fra le foglie di origano e timo, la guarda appoggiando le mani al lavello di graniglia consumato negli spigoli, la distingue intera. Ha la testa piena di progetti srotolati, di cose sistemate in luoghi appropriati. Armonie necessarie alla sua quiete. Fiducia.
È una casetta di legno, o meglio un nido, al limitare del bosco, sospesa di sghimbescio fra tre sughere, il pavimento elevato a tre metri dal terreno muschioso.
A unire i due mondi s’appoggia una scala a pioli tenuta insieme da rampicanti d’edera saldamente avviluppata.
Foglie, lanugine, pollini raccontano la strade di Eolo e Pluvio. Le stagioni.
Manca il tetto, e due delle cinque pareti sono solo abbozzate.
A terra una catasta di legno - traversine raccolte dalla linea ferroviaria dismessa- riempie gli occhi di chi osserva, è un richiamo quotidiano alla carpenteria. In effetti è molto più di un richiamo. Sono le voci scricchiolanti dei sospesi, bilance di giustizie interiori, sentenze, condoni, evasioni.
Uno Shangai sproporzionato.
Zoe ha infilato gli zoccoli da campo e un maglione abbondante di cotone amaranto; ora cammina col vento in faccia che le asciuga i pensieri.
Accarezza il sughero con il palmo della mano. Canta i ritmi del da farsi. 
Come ogni primavera solleva, scuote e ripiega i teloni che da qualche anno distende d’autunno- Ogni anno si promette di finirla quella stanza per aria. Anche se i figli sono andati via da casa, anche se ogni volta che impugna la sega c’è qualcosa d’infranto: nella sega, nel legno, nel progetto rivisto, nelle sue giunture, nei suoi cassetti di sogni a metà.
Si ferma a guardare la catasta ignuda, le gambe piantate a compasso e gli occhi assottigliati a strizzare il passato fuori dai rispostigli del cervello.
Comincia da pollice e indice, percorre tre mani, tre mucchietti di dita. Tre lustri. Come filastrocche snocciolate a memoria.
Quindici anni di domani.
Negli ‘intanto’ sono passate intere biblioteche di storie; tende e sacchi a pelo, amache rivoltate fra risa e dispetti, partite di scacchi con avversari immaginati, osservazioni di stelle in epici bestiari, buio pesto e file urticanti di Processionarie delle querce.
Il piano alto è stato in ogni stagione un curioso rifugio esposto a tutta la rosa dei vènti, quello sottostante, col pavimento per tetto, una nicchia fra siepi selvatiche, dove una poltrona sospesa ha dondolato pagine delle più svariate stampe, suffumigi odorose e generazioni di ragni tessitori.
Una stratificazione di abbracci filiali, mutazioni di forma, bisogni.
Affezioni, umanità. Amore.
Passaggi.
Le sughere hanno visibilmente espanso le circonferenze dei tronchi, tra poco includeranno il pavimento nella loro scorza duttile.
Ora sono più alte della vertigine di Zoe.
Sono più ampie del suo respiro che travalica i polmoni verso una vastità non comprensibile.
Cosa è giusto o bello, cosa è armonia?
La ricerca di quiete è un anelito sempre presente. Uno sorgente perpetua di punti interrogativi come uncini impegnati a scavare. A scavare. A scavare.
Più gli anni passano più sente la precarietà come ‘parte essenziale alla vita’.
A volte si manifesta come apatia; a volte è frenesia, spesso è distacco.
È come camminare portando a spasso un corpo di materie differenti, come se il pensiero fosse uno dei 100 sensi, come se i confini fossero resistenze solo apparenti.
Intanto si è arrampicata fra le edere della scala a pioli, ora è sul pavimento di quel minuscolo paese pentagonale e sospeso, ha in mano un’ampolla di ferro laccata in blu, dal beccuccio scende un filo di olio. Zoe è in equilibrio sulla punta dei piedi, sporta in avanti, mentre unge la grossa carrucola sistemata allora sul vuoto, all’inizio dei tempi.
Al primo progetto.
Fa scorrere il canapo su e giù nel solco della ruota, quando smette l’attrito lo passa intorno a una traversa e serra la presa.
Ora quella penzola come un impiccato, Zoe si tocca il collo, scuote il capo, si impietrisce e sorride, possibilità e scelte.

Nel giro di 6 ore ha smontato ogni asse, divelto ogni chiodo, reso alle sughere lo spazio. Riposto ogni cosa in equilibrio.
Quel Domani all’alba chiuderà senza chiavi la casa di pietra con la finestra accanto al lavello che guarda le sughere.
Ora la casa è vuota, è una pagina bianca per altri a venire.
Quella casa dove in Zoe tutto è stato infinito e non finito, dove le zolle hanno tumulti e gli infissi vibrano di schianti di luce. Dove tutto si muove si rompe, a catena, dove, con complicazioni, piano piano ogni cosa in qualche modo si aggiusta, dove il quotidiano ha il sapore di conquista.
Quello Shangai sproporzionato delle traverse è la metafora perfetta di quel luogo di equilibri e ripercussioni senza soluzione di continuità. Crolli, magie.
Ride, con un sapore di scorza d’arancia
Quello Shangai sproporzionato delle traverse è la metafora perfetta del luogo: equilibri e ripercussioni senza soluzione di continuità.
Crolli, magie.
Nascite, morti, Lari dispettosi, verità scavate a mani nude con la felicità nelle unghie; un posto dove l’ingombro dei vissuti riempie di scene viventi ogni angolo. 
La casa delle moltitudini ora lascia andare i suoi spiriti.
È un respiro che meritano entrambe.

Nel mese trascorso, con ogni scatolone chiuso e buttato o donato, Zoe sentiva fisicamente espandersi le pareti dei polmoni e delle stanze.
Sciogliere i nodi dei nastri invisibili che la legano agli incanti di quei luoghi.
Il bisogno di avere meno di cui prendersi cura, meno emergenze, meno ornamenti, meno vestiti, meno interessi.
Dedicarsi a scomparire con serenità e gratitudine.
Niente di oscuro, nessun rammarico, solo una mutazione di stato.
Domani Zoe salirà sulla sua auto colore degli Iris, riempita del suo concetto d’essenziale. Traslocherà i suoi confini tracimanti altrove.
Arriverà, con i chilometri appiccicati alle ruote avendo lasciato spazio e respiro al suo addio, su una piccola altura dai mille verdi fitta di vegetazione.
Un altrove dove l’Umano non sia così disadatto al pianeta ospitante.
Arriverà a un dado bianco di calce e cemento senza angoli vivi, smussato; arriverà soprattutto a un terrazzino che guarda in un orizzonte da capogiro il mare danzante del sud.
Stenderà i suoi sogni su di un filo per bucato e tubetti di pigmenti sopra fogli di carta cotone.
Accoglierà gli ospiti del cuore con la teiera di coccio turchese col tappo di sughero.
Saranno giorni di una semplicità disarmante
Ecco, ora è disarmata.
Ora avrà concluso il cerchio di un canto, ecco la sua rivoluzione.

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