Chiamatemi
Isa. Ma solo se è strettamente necessario: altrimenti, preferirei non mi
chiamaste affatto. Non ricordo con precisione quanto sia passato dall’ultima
volta in cui ho interagito con qualche essere umano. Da tanto, comunque, non
sento pronunciare il mio nome da una voce diversa dalla mia, mentre sono
intenta a borbottare dopo aver fatto cadere inavvertitamente qualche oggetto o
aver lasciato qualcosa troppo a lungo sul fuoco.
Non
sono però una monaca di clausura, o qualche altro tipo di figura ieratica in
odore di santità. Se proprio dovete, pensate a me come a una capra selvatica,
abbandonata dal gregge troppo a lungo per avvertirne persino il bisogno. Sul
dirupo roccioso di questa piccola isola mi arrampico ormai lentamente,
smuovendo la ghiaia candida ad ogni passo e guardando dietro di me le schegge
di roccia scintillante singhiozzare giù per il pendio ripido, fino a tuffarsi
nel blu assoluto del mare. Precipitano e sobbalzano come in una danza
inconsapevole. Come la vita.
Mi
servono poche cose: la luce bianchissima che acceca e circonda ogni cosa, il
calore del sole d’inverno, l’ombra fresca degli arbusti d’estate, un po’ di
cibo che mi viene lasciato dagli uomini, quello che mi viene donato dalla terra
asciutta. Mi fanno compagnia la voce di miliardi di stelle, la notte; i
sussurri delle navi che passano distanti, trasportando quei gomitoli di
desideri chiamati uomini, di giorno.
Mi
sono rifugiata qui per dimenticare, eppure tutto quello che mi resta da fare è
ricordare. A volte nella vita capita di assistere a uno spettacolo
straordinario, che si fissa nella memoria, di più, nel corpo, al punto che
anche a distanza di anni, di decenni, continui a percepirne la forza vibrante
sulla pelle, attraverso il pulsare del sangue nelle vene, nell’attorcigliarsi
delle viscere. Quando la vidi, la prima volta, ne avevo già sentito parlare a
lungo, e un’aura di mistero e di magia accompagnava il suo nome, come se si
trattasse di un personaggio sovrannaturale, dotato di poteri ultraterreni,
capace di gesta straordinarie. Mi colpirono subito la sua conformazione
sottile, le ossa leggere e appuntite, da uccello migratore; e quegli occhi
indagatori che parevano succhiare la realtà per rubarne l’essenza. Sembrava
divorata da una febbre costante, che le rendeva impossibile stare, inquieta,
irriverente, distratta da qualcosa di troppo grande. Sfuggente, anaffettiva
forse. Pervasa di un magnetismo assoluto, che la rendeva la più desiderata,
sempre e comunque, nonostante non fosse la più bella. Si spostava senza preavviso,
abbandonando le conversazioni nate per compiacerla, inaspettatamente attratta
da un insignificante movimento catturato con l’angolo dell’occhio, per poi
richiamare tutti attorno a sé nella stanza con il pretesto di una proposta
indecente a cui naturalmente nessuno sapeva dire di no. E quindi scomparire,
appena cominciata l’avventura, per ripresentarsi giorni dopo, quando ormai la
sete della sua presenza si era fatta arsura. Tutti la amavano e la odiavano.
Scivolava tra i nostri corpi, sorvolava le nostre esistenze, inafferrabile,
interrogativa, detestabile e intensa. Il suo potere era immenso: lei lo sapeva
e se ne approfittava. Non era solo il suo essere sfuggente: c’era qualcosa in
lei che la rendeva indispensabile a tutti. Anche a me: provavo un desiderio
disperato di decifrarla, di vincere il premio, di arrivare per prima a
conquistare le meravigliose perle di luce che racchiudeva dentro di sé.
Rappresentava la ricompensa di una guerriglia che coinvolgeva tutti, senza
regole, senza prigionieri, senza pietà.
Ciascuno
usava tutte le armi a propria disposizione per conquistare un frammento della
sua attenzione, un lembo di vita, una santa reliquia da trattenere come una
lucciola sotto il bicchiere, per illuminare la notte della nostra esistenza. Ho
un ricordo confuso di quei giorni (mesi? anni?) in cui al suo cospetto ci
affannavamo per compiacerla, come magi in adorazione, come una ciotola di
ciliegie nelle sue mani. Chi sa se fosse davvero consapevole di quanto enorme
fosse il suo potere? Se seguisse alla lettera una formula precisa con l’intento
di tenerci soggiogati, o se invece usasse le proprie ali colorate per attrarre
e succhiare il nettare da ciascuno in modo febbrile, animale, guidata dalla
necessità più che dall’intelletto. Quello che so è che rimasi felicemente
preda, come tutti, fino a un preciso momento.
È
difficile definire l’attimo esatto in cui prendiamo coscienza di qualcosa.
Solitamente ci guardiamo indietro e risaliamo la corrente dei ricordi con
fatica, tra le rocce e l’acqua gelida, per ricomporre il percorso e tornare
all’origine, all’istante in cui tutto è cominciato, ma rimaniamo in una pozza
di approssimazione, un tempo arrotondato dalle impressioni, sfumato negli
angoli. In questo caso è differente: so dire perfettamente quando avvenne,
quando cominciò il cammino che mi portò a svegliarmi dall’incantamento e a
vederla per quello che era. Una piccola anima triste.
È
nel nostro bisogno più profondo trovare qualcuno di cui fidarci, magari una
madre o un padre che ancora ci dica cosa fare e dove andare. Per questo forse
guardavamo a lei con tale appetito. Ma lei non aveva la soluzione. Non aveva
risposte per nessuno, nemmeno per se stessa. La sua era la nostra stessa
ricerca famelica.
M.
apparve una nitida mattina di luglio, come materializzato da un’altra
dimensione. Non era semplicemente un uomo bellissimo - la barba curata, lo
sguardo intenso, il portamento di una statua greca -; era una foresta, una
galassia, una sinfonia. Conteneva moltitudini e allo stesso tempo trasmetteva
potenza, serenità, solidità, compostezza. Ovviamente, in un batter di ciglia
eravamo tutte innamorate di lui. Anche lei - per quanto potesse essere capace
di amare. Mi accorsi velocemente dei suoi tentativi di attrarlo nella sua rete,
forzando quegli atteggiamenti che le erano sempre stati naturali. I gesti che
avevano fatto di lei il centro della nostra attenzione, con lui parevano
perdere di energia e significato, riducendosi ai movimenti di una bambina
capricciosa. Un attimo prima era una regina; quello dopo, una patetica figurina
che agitava le braccia per cercare di rimanere a galla nelle sabbie mobili.
Disperata, aveva bisogno di lui per rilucere e più la sua necessità si faceva
evidente, più il suo fascino impermeabile a tutto scivolava via. Aveva bisogno di
possederlo: ma come fai ad afferrare un volo di gabbiani? Come puoi pensare di
conquistare l’oceano? Come contieni l’azzurro intenso del cielo? Il suo bisogno
di averlo tra le mani, di metterlo in cassaforte, di etichettarlo come un suo
possedimento le toglievano vigore, smalto: e proprio per questo si ostinava a
ricercarlo, a volerlo soggiogare. Insistente, lei che era stata tanto
sfuggente; accanita, aveva perso tutta la leggerezza che ne faceva la nostra
libellula preferita.
Come
un castello di carte, la sua freschezza era stata soffiata via rivelando la
ruggine, i parassiti, l’inconsistenza del piedistallo su cui era montata. Poco
per volta tutti si accorsero dell’inganno a cui noi stessi avevamo voluto
credere. La guardavamo affondare, piano piano, trascinata dal suo bisogno di
afferrare la luce di un altro, dalla sua fame gigantesca, da una necessità
travolgente di dominare lui, e noi attraverso lui. O forse solo se stessa. Chi
sa cosa si nasconde davvero dietro l’urgenza titanica che la consumava. Probabilmente
il solito buco, il pozzo profondo che atterrisce e attrae tutti quanti.
Almeno
questo ho imparato, da lei e dalla sua triste vicenda: che procediamo tutti tra
dolore e bellezza, uniti da una comune domanda.
Possiamo
cercare di ignorarla, o di dare soluzioni fallaci, fatte di cose, di sesso, di
studio matto e disperatissimo. Di apparenza e di specchi ingannatori. Se non la
affrontiamo, allora, non aspettiamoci altro che di affondare, trascinati sotto
le onde. Non certo dal nostro insaziabile bisogno di grande, quanto piuttosto
dalle nostre piccole armi spuntate.
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