mercoledì 30 settembre 2020

LA PEGGIORE STORIA MAI RACCONTATA di Monica Capomonte

Seduta sulla metropolitana e circondata da una massa di facce indifferenti rapite da stupidaggini sui telefonini, stringevo tra le mani quella che sicuramente era la peggiore storia mai raccontata.

Mini salto indietro.

Mi chiamo Monica, ho 43 anni (va bene 52, non mi stressate, mica mi sono tolta 20 anni come le Kardashian), faccio l’editor per una casa editrice di Dublino. Vivo in Galles, Dublino è in Irlanda, questo complica un po’ le cose, ma non più di tanto. Insomma, ogni tanto mi danno seguire questo o quell’autore. In genere non sono veri scrittori, si tratta di gente diventata più o meno famosa per qualcos’altro, e a forza di andare in televisione i geni del marketing del 12esimo piano si convincono che qualcuno comprerà il loro libro. Attenzione, ho scritto comprerà, non leggerà, che è una cosa diversa. D’altronde, da dove credete arrivassero tutti i romanzi di seconda mano sullo scaffale dei remainder di Borders e altri librerie postaccio che per fortuna hanno chiuso?

Ah, io chiamo le librerie postaccio quelle che hanno sempre gli stessi libri della grande distribuzione; in pratica sono sempre la stessa libreria, disseminata in varie città del mondo: la caffetteria, la sezione bambini, la narrativa, la filosofia (orientale, mi raccomando), i manuali di giardinaggio e training autogeno, la sezione biografie con tizi che hanno letto Open di Agassi e hanno detto “ci provo anch’io” ma era meglio se restavano alla playstation.

Ma vedo che sto divagando. E poi mica sono una della carampane di cinquant’anni suonati che adora i piccoli negozi con edizioni limitate con romanzi russi e delle Filippine: perdiana, ho solo 43 anni (ahia!).

Insomma, mi hanno affidato questo tizio, che lo incontri di persona ha gli occhialoni e la faccia da topo, poi lo vedi in televisione e sui manifesti e sembra che Clark Kent sia riuscito a infilarsi nella cabina telefonica. A proposito, ma ora che ci sono smartphone ovunque dove va a cambiarsi l’Uomo D’Acciaio, è un po’ che non leggo i fumetti.

Uffa, basta divagare. Dicevo: questo tizio, divenuto noto ai più per una storia romanzata di Hitler, va dai miei capi e dice: ragazzi, ho un’idea, scrivo un giallo.

E loro, pensando che sia il colore della parete di camera sua, dicono: “Fantastico!”. Stretta di mano, anticipo che equivale a 22 mesi del mio stipendio e via verso nuove avventure.

I miei capi, ovviamente solo dopo aver sganciato i quattrini, si rendono conto che forse la fantastica idea non è poi così grandiosa, e mi fanno la solita telefonata. Domande sui figli, sul cane, sul gatto (che non ho) e sul marito, poi tra un salamelecco e un altro “Monique… (sanno che non sono britannica, pensano sia francese, sono nata sul Vesuvio, fate voi) “ci sarebbe da riguardare un po’ le bozze di Marvin. Sai le solite cose: una telefonata una volta alla settimana, lettura di capitoli, qualche aggiustatina.”

Cioè, devo riscrivere tutto da capo.

Il che non è esattamente un problema, quando hai la storia. Solo che Marvin, in spregio a qualsiasi basilare fondamento di giallistica, ha iniziato il libro senza sapere come andrà a finire, e tra le tante idee strampalate che riesco far eliminare dalla stesura, solo su una è irremovibile. Il protagonista ha un gemello che è il vero assassino. Sì, lo so: ve l’ho già detto. E’ la peggiore storia mai raccontata.

Scendo dalla metropolitana, mi avvio alla scala mobile, resto sulla destra come fanno i britannici ma vengo spintonata da un irlandese che ha fretta e vuole passare a sinistra. Lo fulmino con la mia famosa occhiata (è famosa, fidatevi, è l’occhiata più cattiva di tutto il Vomero, a parte i poco di buono) e proseguo.

La storia è pronta per tre quarti, gli indizi sul gemello sono sparsi dappertutto tra le pagine, ho provato a nasconderli, ma più di tanto non potevo fare. Insomma, una roba pietosa, da discutere con tizi della casa editrice.

Entro nell’ingresso del palazzo, getto il documento d’identità sul tavolone del portiere per non stare a ripetere il mio nome 40 volte, che tanto poi lo scrive male lo stesso. Il portiere è grassoccio, con una vaga somiglianza con un tizio della televisione, mi dice il piano a cui devo andare, tutto sommato è gentile e quindi gli perdono la camicia stropicciata in stile scapolo che sfodera con noncuranza.

Mi avvio all’ascensore, premo il tasto. Per fortuna non parte nessuna musica di sottofondo. Un’occhiata a me stessa allo specchio: non male per i miei 43 anni.

Le porte dell’ascensore si aprono, davanti a me l’ufficio non assomiglia per niente a quello che ho visto 3 mesi fa. Se tutte le volte che hanno speso i soldi per cambiare l’arredamento li avessero dati a me bla bla, lo dico ogni volta, mi annoio da sola. Poi sulla parete lo vedo: il film tratto dall’ultimo successo editoriale della casa editrice, messo in bella mostra per far vedere di che pasta siamo fatti.

La storia del film è quella di un tizio che fa la spia, che spara a tutti ma è molto sensibile dentro, e per questo fa innamorare una fotomodella che alla fine salva gettandosi dal trentaduesimo piano.

Do nuovamente un’occhiata al manoscritto di Marvin: massì, può andare. Anzi: sarà un successo.

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