Mirko è un omone di poche parole. Di quelli a cui si porta sempre rispetto, che tutti ascoltano quando ha qualcosa da dire. Le spalle sono larghe ed il volto è segnato da rughe profonde. Il carattere duro e spigoloso è forgiato da anni e anni di duro lavoro in cartiera. Il suo volto è snellito da quella barba lunga che porta praticamente da sempre, nonostante sia difficile tenerla perché lì dentro fa sempre così dannatamente caldo. La cartiera non fa sconti a nessuno.
A volte l'aria brucia talmente tanto che pare di essere in un maledetto deserto africano. È proprio così. Lo dicono tutti, gli operai. Tutti quanti vorrebbero gridare il loro disagio, la loro frustrazione. Ma la cartiera ti dà da mangiare, sfama i tuoi figli. Lo stipendio è buono e allora si tiene duro. Turno 22-06. Nei rari momenti di pausa, tra operai si può scambiare due parole. Di fronte alla macchinetta del caffè, fumando di nascosto sigarette che non si potrebbe fumare e, il più delle volte, dicendo cose che sarebbe meglio non dire. Tizio che è un ruffiano, Caio che è un crumiro perché non vuole scioperare. Spesso, le conversazioni non sono molto diverse dalle chiacchiere che farebbero gli avventori sguaiati di un bar, davanti a un boccale di birra o un bicchiere di vino. Poi c'è il risultato di quella partita di pallone, l'ultima busta paga, qualcuno di cui sparlare, un'altra cena da organizzare. Niente di più.
Ma Mirko non è di quelli. Lui, che di carattere è piuttosto chiuso, si tiene tutto dentro. Parla poco, specialmente con i nuovi arrivati. La maggior parte del tempo, mentre scorrono lente le interminabili otto ore, si lavora e basta. Testa bassa e andare. Quando le macchine continue vanno bene, tutto sommato, il lavoro non è neanche così male. Ma quando c'è “una rottura in seccheria”, lungo quel corridoio infernale dove la carta corre a mille metri al minuto e si asciuga su cilindri roventi a più di 150 gradi, è tutta un'altra storia. Lì sì che c'è da farsi il mazzo, da tribolare. In quei momenti, si lavora così tanto che per resistere a quel caldo devi fartelo quasi piacere. L'aria manca, i polmoni bruciano dentro, la pelle sembra sciogliersi. Si urla, si impreca. Non è ammesso alcun errore. Mirko, in quei momenti, bestemmia con rabbia e pensa alla vita che non ha mai avuto. La vita a cui pensa di aver dato tanto, ma da cui si sente tradito. Fa pensieri confusi.
“Lavori in cartiera, cosa credevi? Pensavi, che interrompere gli studi ti avrebbe portato a qualcosa di meglio? Questa è la tua vita. E non cambierà mai niente.”
Si suda. Si lavora. E poi, un giorno, si crepa.
“Per quello c'è ancora tempo.”
Sono le quattro di notte. Mancano ancora due ore.
Ecco, arriva il capoturno. Stasera c'è proprio lui, il rompicoglioni. Ma è l'assistente di produzione. Comanda lui.
Ti rimprovera. Ti tiene d'occhio.
Strappa la carta. “Dai, manca poco.”
Spazza la carta. “Ho mal di testa.”
Osserva la carta. Dev'essere perfetta.
“Mi ci vuole un caffè.”
Sono le sei. Il cambio è arrivato. Finalmente il turno è finito.
Albeggia a malapena. Mirko esce di cartiera.
Fuori piove e la pioggia lava via l'odore di carta e polvere.
Mirko la doccia se la fa a casa.
Non gli va di sentire i soliti discorsi dei colleghi su questo e su quello. Pettegolezzi degni di “donne da mercato”, dice lui. E poi, dopo tutto quel rumore, ha bisogno solo di silenzio. Intorno a lui aleggia un tanfo che sa di uno sporco pesante e fuligginoso, che per otto ore è penetrato a fondo nelle sue narici. Mirko monta in auto. Sta tornando a casa. Si riflette nello specchietto retrovisore. “Lo vedi quello lì che ti guarda con gli occhi pescati, con le pupille scure e stanche? Sei proprio te. Sono le sei e dieci del mattino. Il turno in cartiera è appena finito e non hai ancora per niente sonno. L'odore di carta e polvere impregna i tuoi vestiti, da capo a piedi. Il blu acceso della tuta è diventato un grigio sporco e lurido. Le orecchie ti fischiano e la testa ti gira, tanto è stato il rumore assordante che hai sopportato per tutta la notte. Hai fatto il tuo lavoro anche stanotte, per la quarta consecutiva. Ma per che cosa? Per un misero stipendio? In fondo al mese sono più trattenute che altro. E allora per cosa? Però... dì la verità... che in fondo ti piace il tuo lavoro. La carta che fai la vendono anche all'estero. La fanno con materiale riciclato, aiutano il pianeta, no? E poi la nottata l'hai passata anche bene, giusto? Due o tre caffè, quattro chiacchiere con il tuo collega operaio. Chiacchiere... chiacchiere... ma quanti discorsi del cazzo, ti ha fatto venire il mal di testa quello lì!” Mirko si sente abbattuto, deluso dalla sua vita. Una volta a casa, la moglie lo avrebbe assillato ancora. Mirko non è più disposto a sopportare anche lei. Lei che non lo capisce, che lo accusa per non averle dato una vita migliore. “D'accordo che non ho studiato, che ho sempre lavorato. Ma perché solo chi studia deve avere una bella vita? Una bella moglie, una bella casa? E magari fare anche soldi? Accidenti a chi ha i soldi, spero che se li spendano di dottore!” Mirko ha un segreto. Nessuno dei suoi colleghi lo direbbe mai. La cartiera è un luogo strano. Lì non conta che cosa si è, ma come si appare. Un po' come in tutto il resto del mondo, del resto. Ovunque, c'è tanta apparenza. Della sua vita fuori dalla fabbrica, Mirko è piuttosto insoddisfatto. A vederlo, non si direbbe proprio che uno come lui possa buttarsi giù, fare certi pensieri tristi e cupi. Mirko, l'uomo forte e dalle maniere brusche e spigolose, che ostenta sempre tanta sicurezza. É stanco. Guida fino a casa, la testa annebbiata e confusa da mille pensieri che poi, in fondo veri pensieri non sono. Più che altro sono immagini veloci e frastagliate, istantanee che si susseguono nella mente e che si frappongono tra lui e l'asfalto bagnato illuminato dai fari. Parcheggia sotto casa, ma non sale immediatamente. Decide invece di farsi due passi. Intanto, ha smesso di piovere. L'omone cammina lungo il ciglio della strada. Rimugina.
***
La sera dopo Mirko è uscito presto di casa, subito dopo cena. È alticcio. Una bottiglia di rosso, ormai vuota, l'ha lasciata sul tavolo mentre continuava ad urlare alla moglie parole incomprensibili perfino per lui. La bambina intanto piangeva, inconsolabile. Poi è crollata esausta, nel suo lettino. Ma Mirko non poteva badare anche a lei. Lui è stanco, deve ricaricare le batterie per poter ricominciare coi turni, l'indomani. Mirko, l'operaio insoddisfatto della sua vita. Mirko e il suo pacchetto di sigarette arraffato con rabbia. Mirko e le chiavi di casa agguantate di fretta. Il solito urlo rauco in faccia alla moglie. Non si sente capito da lei. Si sente come tradito. Le scale scese senza neanche accendere la luce. Poi fuori, il passo è svelto. Adesso vuole solo fumare. Non gli serve altro. Dopo il vino ci vuole. Vorrebbe togliergli anche quello, quella stronza di sua moglie? E il resto è sotto la luna. È tutto lì. La voluta del fumo si disperde velocemente nel buio. Mirko cammina, accompagnato da un vento freddo e pungente, sull'erba umida a bordo strada. Gli basta quello, è tutto ciò di cui ha bisogno al momento. Vanno i suoi pensieri, lasciandosi trasportare ad ogni folata, tra il rumore dei suoi passi sul selciato e la luce lunare che filtra tra i rami del pergolato, di quella casa, poco più giù. Ad un tratto si arresta. Quel posto gli ricorda qualcosa. Riaffiorano ricordi di tanti anni prima, quando frequentava la parrocchia del paese e un vecchio prete gli parlava di quel luogo in cui Gesù venne tradito. “Sì... il Getsemani... l'orto degli ulivi. Già... dev'essere stato proprio così, quel posto: solo quiete e vento.” Mirko è lì, sotto la luna. Respira a pieni polmoni. Ci sono fiori profumati. Alberi imponenti, centenari, contorti. Pace. Nient'altro che questo. Ma... con Gesù c'era anche Giuda, il traditore. Mirko è intorpidito dal vino, ma ci vede ancora bene. Non è mica stupido, poi. Lì non ce ne sono mica di alberi centenari. A casa non c'è mai pace. Quella donna... lei sì che gli ricorda Giuda...
“Ma che vuole quella da me? L'avrò anche sposata, ma non ha nessun diritto da rimproverarmi sempre. Vada a quel paese...”
Dopo un attimo la mente vola chissà dove. È un secondo e la strada gli sembra di nuovo quel posto. Già. Come si chiamava?
“Come si chiamava? Getsemani? Si... quello lì...”
Mirko torna sui suoi passi. Adesso il vino comincia a farsi sentire molto e le gambe sembrano di legno. Sale le scale di casa cercando di fare piano, ma inciampa più volte. Gli scarponi arrancano pesantemente sui gradini in cotto. Si trascina verso la camera da letto della bambina. La sua piccolina è lì che dorme, beata. Succede qualcosa. In un attimo, tutto diventa più chiaro. Improvvisamente, si ricorda per che cosa è che suda e fa sacrifici. La sua vita, la cartiera, la fatica, i colleghi che non sopporta, forse, sono anche un po' colpa sua. Nessun Giuda, nessun traditore. C'è anche dell'altro. Una volta, lui amava sua moglie. E lei non l'ha mai tradito. Nonostante il vino, le discussioni, la vita sempre più dura. Nonostante tutto. Lancia un'occhiata all'orologio sul muro: sono le ventitré e trenta. Tira un sospiro e si riempie nuovamente i polmoni. Questa volta l'aria sa di lettino, di latte, di guance profumate. Domattina la spesa e un paio di bollette da pagare. Se continuerà a lavorare, se saprà ascoltare sua figlia, se saprà aiutarla a scegliere bene, lei non avrà il suo stesso destino. Per Mirko, adesso è tutto chiaro. Forse, gli è proprio servito farsi quella camminata. In casa sua, nel luogo in cui non se lo sarebbe mai aspettato, proprio quando non lo avrebbe mai detto, Mirko ha ritrovato qualcosa che non credeva di avere più.
Getsemani.
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