Il terrore aveva lasciato posto alla curiosità. In mano mia, quell’amuleto aveva perso gran parte del suo influsso oscuro. O almeno così mi piaceva pensare. Maria si sedette, con delicatezza, davanti a me. “Sì, è mio. Sono passati tanti anni, ma in un certo senso non abbastanza. Mio padre aveva trasferito me e le mie sorelle in campagna, al sicuro dai bombardamenti delle città. Una sera sentii raschiare alla porta, come se ci fosse un animale alla porta. La guerra era finita da pochi giorni. Lo vidi magro e sdrucito, doveva aver disertato da almeno due settimane. Era quello il simbolo di tanto terrore, che aveva sconvolto città, famiglie e Paesi interi, in tutto il mondo. Un ragazzo tedesco di neanche diciassette anni, sporco dei suoi stessi escrementi affamato, lontano da casa. Troppo debole per poter solo pensare di fare del male a me e alla mia famiglia. Gettai dalla finestra del pane, che raccattò dalla terra umida e mangiò, come un animale. Probabilmente non aveva mangiato niente di così buono da giorni.
Restò con noi una settimana. Nascosto nella cantina, come una bestia. I partigiani lo stavano cercando, chi lo sa che gli avrebbero fatto se lo avessero trovato. Gli demmo un vecchio vestito che tenevamo in casa: credo di Mario, il marito di una cugina della mamma. Era troppo largo sui fianchi, lo aggiustammo in qualche maniera, e bruciammo la sua divisa nazista nel fuoco del cortile. Le mostrine le buttammo nel torrente. Ma una la tenni con me. Ricordo le sue mani, pallide e magrissime, e gli occhi terrorizzati, piantate in quel viso incavato. Prima di andarsene, scappare via, attraverso il pioppeto, mi sorrise. Aveva i denti sporchi, le gengive nere. Assomigliava ai cani che allevava mio padre, solo più disperato e ansimante. Allungai una mano verso di lui, gli carezzai il collo. Questo lo fece ripiegare in due e singhiozzare. Ero giovane, ma mi fece sentire vecchissima. La sua ombra sparì nel bosco, e mi piace pensare che sia riuscito a tornare a casa, a tornare dalla sua famiglia. A ricominciare. Un bambino che indossava grottescamente abiti che non gli appartenevano. Mentre parlavo, non potei fare a meno di riaprire per un istante la custodia, e osservare il luccichio che mi ricordava quello dei suoi occhi smarriti. “Ed ecco che anche questo piccolo stupido oggetto ha raccontato il suo segreto”. Esitai. D’un tratto la voce mi aveva abbandonato, non era rimasto che un soffio. Poi ripresi a respirare. “Pensi che sia stata una pazza ad aiutare quel ragazzino?
No. Lui non aveva nessuna colpa.
Forse no. O forse era un giovane assassino, un piccolo delinquente che ho contribuito a riportare a casa. Peccato non potere sapere prima certe cose, vero? Sapendo la verità in anticipo magari le nostre scelte cambierebbero il loro corso, ci comporteremmo in maniera diversa. Ma non è così che funziona. Tu sembri saperlo più di altri. La donna che aveva detto di chiamarsi Maria abbassò gli occhi, e poi raccontò la sua storia.
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