martedì 30 marzo 2021

NINNOLI di Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco

Quando Lina entrò in nell’appartamento i due drammi erano già avvenuti:

      I.       I.  Il Signor Lucci e la figlia Maria le raccontarono che sei anni prima, una puntura, invece di proteggere Cosimo dalle insidie di nemici microscopici e potenti aveva bruciato la potenziale carriera di notaio a cui lo aveva predestinato il padre.

     II.       II. Adesso che da due settimane era morta la moglie/madre devota avevano bisogno di una domestica fidata su cui contare.

Le fecero conoscere il bambino dal corpo florido e dall’intelletto inerte, indifferente al trascorrere del tempo, passava le giornate a giocare e a squittire, trastullandosi con cavalli di plastica satinata continuava a dire “lallo, lallo, lallo, lallo”. Lina iniziò a chiamarlo Lallo, lui rideva e sbavava.

Lei curava la casa come se fosse sua: aveva l’ordine di non spostare nulla, neppure un soprammobile. Stava attenta a che nessun garzone o corriere potesse rigare il parquet, sporcare i tappeti o, peggio, buttare a terra un ninnolo.

Dopo qualche anno, Lucci raggiunse la moglie nella cappella di famiglia, ma prima fece in tempo a stipulare un contratto con la figlia: si sarebbe dovuta occupare di Lallo, non doveva rinchiuderlo in istituto altrimenti avrebbe perso la facoltà di beneficiare dell’agio economico.

Maria rinunciò a una propria famiglia. Sfioriva e ingrassava trascorrendo le giornate a fumare, spilluzzicare e a curare Lallo come se fosse il suo bambino, anche se ormai era grande come lei.

Lina invece non consumava, ma come una formica accumulava. Nella sua stanza nascondeva gli abiti ancora nuovi in cui Maria non entrava più. Ogni tanto ne provava uno, per sentirne l’effetto.

Ogni sabato sera purgava Lallo, tanto il bagno della domenica toccava agli adepti della Confraternita della Misericordia che lo lustravano a dovere da tutta la melma intestinale spurgata tra pannolone e lenzuola.

Mentre i volontari lavavano Lina cucinava e rassettava le stanze.

Dopo il pranzo domenicale, Maria lenta e dolente si preparava per il teatro, Lina guardava la televisione, Lallo faceva trottare due cavalli sul tavolo. Una volta soli, Lina lo portava in camera per il riposino pomeridiano, lo spogliava e iniziava a toccargli i piedi che, anche se grandi, erano morbidi e cicciosi come quelli di un bambino: obbligati nelle scarpe ortopediche, non erano mai stati veramente usati. Le piaceva sentire la pelle sudata e macerata, aspirarne l’odore acuto che sapeva di formaggio fermentato. Lei li vellicava e lui gioiva. A quel punto si risvegliava l’istinto di femmina inappagata e cominciava a giocare con la virilità dell’infermo che, anche se nella testa era rimasto un bimbo di sei anni, aveva il corpo di un ventiseienne. Lo incitava a cavalcarla come per andare in battaglia, e insieme ripetevano “lallo, lallo, lallo, lallo” fino a quando Cosimo, il cavaliere, non finiva la sua corsa e Lina, il suo destriero, non era appagata. Poi gli richiudeva il pannolone, lo rimboccava per il riposo pomeridiano e andava in salotto a sbracarsi sul divano, come se fosse la padrona.

 

Lallo imbiancava e Lina si avvizziva, ma la loro cavalcata settimanale rimase un appuntamento fisso.

 

La signorina Maria morì mentre Sergio, il badante peruviano, la massaggiava in profondità.

Lina ereditò tutto, ma anche lei secondo testamento, doveva occuparsi di Lallo. Fu soddisfatta di diventare la padrona di quel mausoleo e di poter giocare con Lallo tutte le volte che voleva. Per comodità assoldò una serie di badanti che, sotto la sua supervisione, si alternavano nella gestione di Lallo. Usciva con l’infermo in carrozzina solo per saltare le file o per entrare gratis in qualche manifestazione mondana. A casa lo trattava come se fosse il marito: chiedeva, si arrabbiava, lo vezzeggiava; lui la guardava imbambolato e diceva: «Lallo?»

«Ma pensi sempre a quello? Lallo lo facciamo dopo».

Gli anni trascorrevano senza sussulti.

Lallo superò i sessantacinque, giocava sempre coi cavalli – ora vecchi e monchi – e ogni tanto una crisi epilettica o un attacco ischemico transitorio lo bloccavano.

Lina era sempre più tigliosa; ogni giorno, mentre la badante Giorgiana lavava Lallo, lei spolverava i ninnoli e lucidava i mobili con un fluido nutriente: con gusto ne inspirava l’odore penetrante e oleoso. La televisione era la sua unica amica: ne aveva messa una in ogni stanza, le piaceva l’echeggiare che percepiva mentre percorreva l’intera casa. Non voleva ascoltare il brusio di pensieri e ricordi che si affaccendavano nella testa.

Un sabato, dopo la battaglia e dopo aver preso la purga, sdraiato tra le lenzuola in attesa di cominciare a sognare, Lallo, oltre al consueto trambusto intestinale, avvertì una fitta dolorosa che gli tolse il respiro.

La domenica mattina, dopo essersi lavata e idratata con cura, Lina, come da rito, portava il caffè a Lallo chiamandolo dal corridoio con la sua voce garrula. Quando tirò su l’avvolgibile lo trovò immobile e terreo intriso nel liquame viscerale.

Il cuore le batté forte.

Abbassò l’avvolgibile e chiuse la porta. Svuotò nel lavello di ceramica la tazzina di Lallo, ci fece scorrere dell’acqua affinché non restasse macchia e la mise sullo scolapiatti. Poi riempì la sua e andò a sedersi nel salotto buono: adesso era una vera signora. Sorseggiò il caffè prima di fare le cose necessarie.

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