Alla fine del 1995 facevo il filo a una ragazza di nome Tatiana. Abitava lontano, ci scrivevamo. Io tanto per cambiare ero molto preso. Lei invece, per ragioni che ho difficoltà oggi a spiegare, non era sicura che avessi i capelli, quindi nicchiava. Tuttavia, a dispetto delle canzoni di sfigati di allora che raccomandavano di non diventare mai amico di una donna, le ero amico. Di penna, appunto. Non starò a fare la lagna dei vecchi che glorificano le missive postali di un tempo rispetto alle chat di oggi, ma è tutto vero: la trepidazione di inviare la lettera, ricopiata più volte per via della scrittura da gallina, la struggente attesa nell’aspettare la risposta di lei. Insomma, ero sotto esame, e dovevo calibrare ogni singola parola che scrivevo, certo che se mi fossi perso in cretinate l’avrei perduta per sempre. Era tipo novembre, ascoltavo ottanta volte al giorno “Mia” degli Aerosmith (Mia è il nome della figlia di Steven Tyler, e se pensate che sia un dettaglio di nessun interesse, peggio per voi) che per ragioni ignote me la portava alla mente, e aspettavo una sua lettera di risposta. Quando arrivò, scoprì che la lettera era più corta di quanto avrei sperato, ma soprattutto conteneva una di quelle trappole da donne in cui centinaia di incauti spasimanti sono affondati tipo palude Everglades. Insomma, mi consigliava di leggere un libro, e mi diceva di dirle che ne pensavo.
Avrei dovuto capire dalla
scelta di “Oceano Mare” di Alessandro Baricco che con Tatiana non sarebbe
potuta durare, tuttavia mi incaponii a scrivere qualcosa di sensato. All’epoca
pascolavo in casa d’altri gran parte delle giornate e come spesso accadeva,
finii dal Prof. Gastone P., caro padre di un caro amico (IL mio amico, ma
tagliamo corto).
Il Professore, ovviamente
colto, ma anche stralunato e spassoso per qualche ragione non mi considerava un
asino totale alla stregua degli altri stupidi amici del figlio e ascoltò la mia
fuffa sentimentale su Tatiana. Docente di restauro, mi portò una volta in
maniera del tutto clandestina a vedere il Corridoio Vasariano. Conosco la Rocca
Malatestiana di Fano per via di lui. Una volta dettò al telefono alcune dritte
a me e al figlio su Palazzo Vecchio facendoci fare un figurone in una
improvvisata visita guidata in cui mettemmo nel sacco una Professoressa di
Storia dell’Arte del tutto imbelle.
Insomma, a suo modo mi
voleva bene. (Qualche anno dopo quando finii all’ospedale venne addirittura a
trovarmi esordendo con un suo grande classico: “Posso stare poco, solo sei
ore”. Ma è un’altra storia, torniamo all’aneddoto iniziale).
Quando citai “Oceano Mare” e
la terribile prova che mi attendeva, indicò senza guardare una delle sue
straboccanti librerie dove in alto, al quarto quinto scaffale c’era una copia
del libro citato. Lo aveva, non dovevo comprarlo. Era già un ottimo inizio,
restava solo da leggerlo.
Piccola digressione
personale: a parte Buzzati, De Crescenzo e pochi altri, guardo con estremo
sospetto qualsiasi autore e pubblicazione italiana. Non si tratta della solita
idiota idiosincrasia di chi alle superiori odia Manzoni, Pascoli e compagnia
bella. Semplicemente prediligo -tutt’oggi-autori inglesi e americani del
Sette-Otto-Novecento. Ho letto qualche mitragliata russa, ho amato qualche
francese, ma se non sei uno scrittore anglofono generalmente puoi andare a
tagliare il fieno. Baricco poi, lo conoscevo perché conduceva- a piedi scalzi
(Dio solo sa perché) -una trasmissione sui libri (il titolo era Pickwick, mi
disse la mia amica Consuelo) e faceva il nanerottolo coi riccioli che si crede
belloccio. Aveva scritto un romanzo (Castelli di Rabbia. Sagace gioco di
parole, nevvero?) e questo bastava per farmelo odiare, senza un vero motivo.
Insomma, il mio segreto
desiderio era che il Professore me lo raccontasse senza doverlo leggere
davvero. Una sorta di Bignami orale, in cui il Bellavista della situazione (se
non avete letto De Crescenzo, fatemi il favore, sparatevi) spiegava a me, il
giovane semianalfabeta, la trama elaborata da Baricco, che si scoprì essere la
storia di un tizio uguale a Baricco che vive su una spiaggia e scrive lettere a
una donna che deve ancora incontrare. Lo so, detta così è avvilente. Ma la
mancanza è mia: sono io che antepongo a qualsiasi giudizio di merito ed
estetico il fatto che mi stava sul cazzo. A mia unica discolpa, il Baricco che
viveva sulla spiaggia era scalzo come Baricco in televisione.
Il Professore capì che il
mio odio per Baricco non si sarebbe placato, e disse qualcosa che finalmente
svoltò la situazione: “Dovresti trovare dei miei appunti che lo lasciato mentre
lo leggevo.” Saltai come un giaguaro sulla libreria, presi tra le mani quel
libro dalla copertina celeste e vi scoprii dentro la Shangri-là dei
nullafacenti come me (no, non ho letto il romanzo di James Hilton su
Shangri-la, e nemmeno ho visto il film di Frank Capra, conosco solo la storia di
Paperone creata da Carl Barks). Decine e decine di osservazioni scritte in
corsivo su post-it infilate tra le pagine. Acute, intelligenti, piene di
riferimenti letterari coltissimi, critiche di uno spessore così alto che mi
fecero pensare che le avesse scritte solo per farmi fare bella figura con quella
ragazza.
Inutile specificare che
scrissi una lettera con i controfiocchi, la tipa diventò un vero brodo di
giuggiole e da allora le cose tra noi andarono in netta discesa (poi in
altrettanto netta risalita fino al crash finale, ma tant’è.)
Da qualche tempo il
Professor Gastone P. non c’è più. Tra i tanti aneddoti che mi porto dietro di
lui (“Non voglio drammatizzare, ma senza
questa sei spacciato” disse una volta passandomi una pastiglia per l’asma,
circondati da decine di gatti a cui eravamo entrambi allergici) ho scelto
questo. Più che altro a uso e consumo mio e del caro amico, figlio del caro
Professore, perché parla di un periodo che abbiamo vissuto praticamente
insieme. Pochi mesi, ma che a distanza di anni, sembrano durare una vita
intera.
Ah dimenticavo, la faccenda
dei capelli. Conobbi Tatiana d’agosto in montagna, dove ero con i miei
genitori. Essendomi rapato a zero qualche settimana prima (per via di una
ripresa televisiva nel Sud della Francia, ma anche e soprattutto perché non ci
stavo tanto con la testa), portai il cappello per tutte le due settimane che la
vidi. Per questo, nella prima lettera a cui mi rispose, a settembre, mi chiese
se per caso lo avessi fatto perché ero pelato. Le scrissi e giurai di no. Che
ero pieno di capelli.
Lei non mi avrebbe visto
prima di tre anni (fu nel 1998), per questo all’epoca dell’aneddoto, nonostante
i miei giuramenti non era sicura che li avessi. Si vede che non ero tanto
convincente, nelle mie lettere. Come se le cose che scrivevo in realtà le
avesse scritte un altro. Già.
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