Sdraiato. Profilo fetale in quest’ansa stagnante.
Bagnato
dal fluire putrido di questo fiume
m’incurvo,
come un sopracciglio, in un riso
maligno
e nervoso. Trafitto da un colpo alle spalle.
Mangiare
le unghie, le dita e una volta terminate
rosicchiare
l’osso, a fatica, come avessi denti di legno.
Con
lo stesso accento, la stessa inflessione nel pronome
e
le stesse pause dici: “tocca il mio ventre”,
dici:
“dispongo il mio bagaglio e vado fuori”.
Fosse
nel nero di una buonanotte, saprei come orientarmi,
fosse
in un capriccio d’estate, saprei come orientarmi,
ma
tuttora è primavera e il sole si lascia ancora guardare negli occhi.
Nel
comune vuoto planano comete di carta,
si
ammassano scheletri in questa insenatura.
Ci
sono anche i detriti, i miei organi,
e
un punto d’inchiostro si è essiccato.
Darò
una pulita a tutto, sì. E proverò a contare fino a dieci.
Uno
strato di polvere si è ormai depositato sull’ultima parola.
I
miei spiriti mi stuprano come si stupra un bambino;
quel
bambino di quattro, cinque anni,
non
di più. Mi racconta cos’è un mattatoio.
È
come un enorme tritacarne, dice,
serve
a mangiare, dice.
Però
a me non piace pensarci quando sono a tavola, dice.
Avverto
neve in ogni nervo del corpo,
nella
vena in bassorilievo sul collo,
un
freddo che si mischia col sangue e
mi
lascia la sensazione che non mi scalderò più.
Mi
avvolgo in una carcassa
come
fosse un lenzuolo su cui hai giaciuto.
Si
va verso la sera e la brezza diventa blu scuro,
alle
porte di un altro anniversario
e
nessuno che si arrischia a farmi un regalo,
di
regali devo rifornirmi da solo e non ho più manco una moneta.
Indugerò.
Cullerò il vuoto dei natali disabitati
che
mia madre ha scandalosamente partorito.
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