martedì 30 marzo 2021

DOMANI, ALLE SEI E TRENTA di Andrea Mitri

Tre giorni prima della cerimonia della mia nomina a Claustero, Diana mi diede appuntamento per le 18, dietro il deposito degli attrezzi agricoli, subito dopo la casa del Primiero Osvaldo. E lo fece baciandomi di nascosto, dietro l’angolo del vicolo del Grano, in maniera talmente veloce da lasciarmi dubbioso sul fatto che le nostre lingue si fossero incrociate.

Era la prima volta, in diciassette anni di famelica crescita insieme, di giochi nella terra, corse nei campi, preghiere e libri condivisi. Era l’esplicarsi di una possibilità sotterranea mai incoraggiata dall’una o dall’altra parte, ma inconsciamente contemplata come normalità comune di un qualsiasi giorno a venire della vita condivisa che mi sembrava di avere, sino ad allora, controllato.

Attesi l’arrivo del buio con trepidazione. 

Il sole non voleva saperne di sparire, continuava a stagliarsi arancione nel cielo, abbassandosi molto lentamente verso l’orizzonte. Poi d’improvviso scomparve dietro la collina, lasciandomi alle retine una macchia rossastra che inconsciamente identificai con il colore della passione.

Camminai allora con indifferenza verso il deposito, fingendo di essere assorto in chissà quali filosofici pensieri: sul nostro stare al mondo, sulla lungimiranza di Dio, sulla necessità delle zanzare.

Lei mi aspettava nell’oscurità. 

Mi baciò di nuovo e questa volta si, le lingue si incrociarono, con certezza.

Poi a bruciapelo mi disse che tra un paio di ore se ne sarebbe andata: avrebbe risalito la collina e sarebbe poi scesa verso l’abitato sottostante per prendere l’autobus delle 6.30 verso la città, dove l’aspettava quell’operaio che aveva lavorato al cambio delle tubazioni nel Palazzo degli Incontri, cinque mesi prima.

- Quello biondo con gli occhi castani? – chiesi.

- Quello castano con gli occhi scuri – mi rispose.

Ma io, in realtà, non riuscivo a immaginarmi nessuno dei due.

Era come se il mondo si fosse fermato in quel preciso istante ed io non potessi più muovermi né avanti né indietro, né nel tempo né nello spazio; ma solo fissare, attonito, i suoi occhi azzurri.

Obiettai a fatica che era una follia, che i suoi se ne sarebbero accorti.

Lei rispose che era l’anniversario del Primo Concepimento Familiare e quindi i suoi genitori si sarebbero chiusi in camera subito dopo cena e non ne sarebbero usciti fino al mattino, al suono della Sveglia Generale.

Non ho mai creduto alle fughe, né alle rivoluzioni che conducono in altri luoghi, lontano da quelle che molti considerano costrizioni ed io, invece, ho reputato, per tutta la mia vita, le necessarie regole per non perdersi nel mondo.

Ma accompagnandola verso casa per l’ultima volta, in quel silenzio assordante che avrei voluto spezzare, mi appariva più chiaro che i sogni avventurosi di cui avevamo riempito i nostri ultimi pomeriggi erano per lei desideri reali e non giochi in attesa del tramonto. Che l’insofferenza nei confronti delle cose che ci circondavano, non era un momento di ribellione adolescenziale ma l’essenza della sua persona.

Non ci baciammo più, solo ci tenemmo a lungo le mani senza scambiare parola, lasciando alle cellule di superficie, probabilmente più melodrammatiche di noi, il compito di legarci apparentemente per sempre.

Tre giorni dopo, davanti alla comunità sofferente, io ribadii la mia promessa al servizio di Dio, cercando nelle parole apposta realizzate dai Saggi ai tempi della Diaspora la consapevolezza di essere ancora nel giusto.

Alla fine della Promessa, fuori dai dettami concordati, provai a lanciare una preghiera per l’anima della nostra sorella Diana. Ma la mia richiesta cadde nel vuoto di un silenzio ostile, lasciandomi perplesso sul concetto di misericordia di cui avevano permeato la mia educazione.

E di lei nella nostra comunità non si seppe più nulla.

Di veritiero intendo, perché le voci che negli anni si rincorsero la davano inizialmente finita in mano a degli sfruttatori, successivamente sposata ad un narcotrafficante e talvolta morta, ingrassata, in un incidente stradale a Cuba o di stenti in una località montana del Nord Italia.

Un ventaglio di ipotesi variegate che lavoravano comunque tutte nella direzione di una qualunque tremebonda espiazione per la colpa commessa.

 

All’insaputa di tutti, nel totale segreto, io ho mantenuto con lei i contatti in tutti questi anni, lungo tutto l’arco del tempo che ci ha condotti fino a questo odierno ultimo atto.

Diradati nel tempo.

A volte lungamente attesi nell’assenza.

Fino a quando una qualche tubatura dell’acquedotto non si rompeva ed arrivava allora dalla città un uomo con i capelli castani e gli occhi scuri a consegnarmi delle buste color turchese. Inizialmente già aperte, ma poi, con l’andar del tempo chiuse, grazie ad una accettazione fiduciosa del contenuto a me rivolto.

Internamente, fogli fittamente scritti in cui mi raccontava le città e il mondo, le gioie e i dolori, altre regole, altri paesaggi, altri modi di rendere grazie alla vita donataci da nostro Signore.

Lettere che poi, in tempi successivi più frequenti, mi ha portato un ragazzo castano con gli occhi azzurri, testimone reale del fatto che la vita prosegue, in ogni forma e in ogni luogo, indipendentemente dalle regole in cui noi proviamo a circoscriverla.

Fino a questa mattina senza lettera.

Una mattina di occhi azzurri da ragazzo inondati di lacrime, di mani di ragazzo strette nelle mie, quasi a ricercare la memoria epiteliale che mi piace pensare sua madre gli abbia suggerito di ritrovare anche in me, prima di lasciare questa terra.

E di colpo ho realizzato che sono stato anche un’altra vita, in un altro dove da qui, in cui attraversavo il mondo con i passi di un’altra persona, osservavo il tramonto sul mare attraverso altri occhi. Un’altra vita di cui mi sono riempito giorno per giorno, senza mai rimpiangere che non fosse la mia: ma consapevole che qualcuno che non mi dimenticava ne viveva un pezzetto anche per me.

E anche, che l’ultimo messaggio era quello di ringraziamento per avere conservato lei, Diana, in un piccolo spazio segreto, nel contesto di queste sue radici abbandonate, in questo mondo imprigionante da cui era riuscita ad allontanarsi.

Per questo ora prego ad alta voce davanti a questa comunità che mi ha insegnato a divenire, controvoglia, il suo Primiero, il suo punto di riferimento. Prego ad alta voce, quasi urlando, davanti ai fratelli e alle sorelle increduli: prego per la sorella Diana che ha visto il mondo senza protezione, senza appigli a regole imposte, senza il conforto di questo nostro Signore che, dall’alto, qui ci guida nel nostro percorso predestinato.

E mentre congedo gli astanti chiedendo per loro la protezione di Dio so già che domattina alle 6.30 prenderò l’autobus e andrò per il mondo.

Chè non ha più senso, per me, rimanere qui.

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