La forchetta d’acciaio 18/10 con manico in teak che raccoglieva due fusilli grano Cappelli al sugo di pesto con basilico ligure, anacardi indiani, olio BioEVo della Toscana centrale, aglio rosso di Sulmona e solo un pizzico di sale di Trapani raccolto a mano, volteggiò altissima in una sinusoide ingraziata da tre testacoda schizzando di verde la parete est tinteggiata di fresco con terra ocra pallido, e, in successione, la credenzina Art Decó in legno chiarissimo della famiglia di Zaira, indi il calzino sinistro in filo di Scozia a righe orizzontali in nuance verdi di Arturo, prima di rimbalzare sul listone in Grès porcellanato effetto legno che pavimentava la casa.
Nel secondo volteggio un
fusillo s’era dipartito in diagonale atterrando, solo per un istante prima di
scivolare a terra, sul terzo globo del lampadario “Castore”, l’altra pasta
elicoidale era restata infilzata nel profondo della forca.
Seguirono quarantaquattro
secondi di silenzioso rimbombo di vuoto.
Quell’iperbole descritta nel
cubo abitativo, come un trenino di montagna russa, aveva riesumato nei due i
minuscoli mille divorzi mai preceduti da nozze.
Da quelle giravolte
sprizzanti riaffiorarono gli screzi, come ricordi evidenziati da un pennarello
sfacciato e volgare; niente di evoluto da poter gridare o almeno sussurrare.
Niente da biasimare.
Solo idiozie snervanti, come
petardi in ascensore: tempi o parole leggermente fuori posto, mancanza di
corrispondenze in territori di confine. Discronie di sapori.
Disattenzioni non
specificamente dedicate.
Oggettistica.
Nulla che una volta
proferito non si sarebbero dovuti rimangiare per ovvietà d’irrilevanza o per
constatazione d’eccesso di stizza causata da nervosismi propri, allora il
silente dei due avrebbe sorriso e quella serenità del volto avrebbe marcato la
sua superiorità di vedute.
“Voliamo un poco più in
alto” sarebbe stato un pensiero non detto e convenuto da entrambi.
Non si sarebbero mai
appaiati a coppie che adunavano gli amici comuni per recitare le malefatte del
partner tamponandosi con un asciugamano di lino intriso di lacrime e
svenevolezza, non avrebbero mai chiesto di scegliere da che parte stare prima
di bombardare i ponti.
Non si sarebbero mai
collocati negli alvei del:” Sei mio”; “Mi devi”; “È colpa tua”; “Se avessi
fatto”.
Negli anni avevano percorso
i “giri della morte” delle passioni e delle trafitture, riportando a sé gli
effetti senza sobbarcare l’altro di inutili orpelli di perfettibilità.
Strabordavano testardamente
buonsenso su un binario d’equilibrio tracciato nei decenni.
S’accostavano sfiorando le
proprie esistenze fra solitudine e compenetrazione.
Dopotutto le fondamenta
degli intendimenti erano le medesime.
Eppure quel volo che li
aveva trattenuti nello sguardo e nella sospensione, quegli schizzi di verde
deliziosamente in pendant con le righe dei calzini di Arturo e non disdicevoli
sulla parete ocra gialla ignuda di quadri; quei ghiribizzi esplosi da
un’appoggiatura ridondante di pesi che avevano reso la forchetta una catapulta,
non potevano sopportare d’essere perfetti.
Mentre Arturo raccoglieva la
forchetta e strofinava il calzino con acqua leggermente gasata Zaira raccolse
il fusillo e pulì la credenzina.
Il lume sarebbe rimasto per
adesso con una pennellata verde.
Tornata a sedere e
incrociando lo sguardo del compagno di cinquantatré anni, la donna sussurrò in
Italiano soave:” Credo, Arturo, che si debba imparare a mandarsi Affanculo ad
alta voce”; al ché Arturo rispose: “Sì Zaira, suppongo che ne avremo entrambi
gran giovamento”.
“Bene, in tal caso: Vai a
fare in culo... qualche cosa” disse lei.
“Tu vai in culo anche senza
far niente”, aggiunse lui.
Quindi assaporarono il
piatto di fusilli con una certa soddisfazione.
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