mercoledì 30 giugno 2021

LA FORCHETTA di Gila Manetti

 



La forchetta d’acciaio 18/10 con manico in teak che raccoglieva due fusilli grano Cappelli al sugo di pesto con basilico ligure, anacardi indiani, olio BioEVo della Toscana centrale, aglio rosso di Sulmona e solo un pizzico di sale di Trapani raccolto a mano, volteggiò altissima in una sinusoide ingraziata da tre testacoda schizzando di verde la parete est tinteggiata di fresco con terra ocra pallido,  e, in successione,  la credenzina Art Decó in legno chiarissimo della famiglia di Zaira, indi il calzino sinistro in filo di Scozia a righe orizzontali in nuance verdi di Arturo, prima di rimbalzare sul listone in Grès porcellanato effetto legno che pavimentava la casa.

Nel secondo volteggio un fusillo s’era dipartito in diagonale atterrando, solo per un istante prima di scivolare a terra, sul terzo globo del lampadario “Castore”, l’altra pasta elicoidale era restata infilzata nel profondo della forca.

Seguirono quarantaquattro secondi di silenzioso rimbombo di vuoto.

Quell’iperbole descritta nel cubo abitativo, come un trenino di montagna russa, aveva riesumato nei due i minuscoli mille divorzi mai preceduti da nozze.

Da quelle giravolte sprizzanti riaffiorarono gli screzi, come ricordi evidenziati da un pennarello sfacciato e volgare; niente di evoluto da poter gridare o almeno sussurrare.

Niente da biasimare.

Solo idiozie snervanti, come petardi in ascensore: tempi o parole leggermente fuori posto, mancanza di corrispondenze in territori di confine. Discronie di sapori.

Disattenzioni non specificamente dedicate.

Oggettistica.

Nulla che una volta proferito non si sarebbero dovuti rimangiare per ovvietà d’irrilevanza o per constatazione d’eccesso di stizza causata da nervosismi propri, allora il silente dei due avrebbe sorriso e quella serenità del volto avrebbe marcato la sua superiorità di vedute.

“Voliamo un poco più in alto” sarebbe stato un pensiero non detto e convenuto da entrambi.

Non si sarebbero mai appaiati a coppie che adunavano gli amici comuni per recitare le malefatte del partner tamponandosi con un asciugamano di lino intriso di lacrime e svenevolezza, non avrebbero mai chiesto di scegliere da che parte stare prima di bombardare i ponti.

Non si sarebbero mai collocati negli alvei del:” Sei mio”; “Mi devi”; “È colpa tua”; “Se avessi fatto”.

Negli anni avevano percorso i “giri della morte” delle passioni e delle trafitture, riportando a sé gli effetti senza sobbarcare l’altro di inutili orpelli di perfettibilità.

Strabordavano testardamente buonsenso su un binario d’equilibrio tracciato nei decenni.

S’accostavano sfiorando le proprie esistenze fra solitudine e compenetrazione.

Dopotutto le fondamenta degli intendimenti erano le medesime.

Eppure quel volo che li aveva trattenuti nello sguardo e nella sospensione, quegli schizzi di verde deliziosamente in pendant con le righe dei calzini di Arturo e non disdicevoli sulla parete ocra gialla ignuda di quadri; quei ghiribizzi esplosi da un’appoggiatura ridondante di pesi che avevano reso la forchetta una catapulta, non potevano sopportare d’essere perfetti.

Mentre Arturo raccoglieva la forchetta e strofinava il calzino con acqua leggermente gasata Zaira raccolse il fusillo e pulì la credenzina.

Il lume sarebbe rimasto per adesso con una pennellata verde.

Tornata a sedere e incrociando lo sguardo del compagno di cinquantatré anni, la donna sussurrò in Italiano soave:” Credo, Arturo, che si debba imparare a mandarsi Affanculo ad alta voce”; al ché Arturo rispose: “Sì Zaira, suppongo che ne avremo entrambi gran giovamento”.

“Bene, in tal caso: Vai a fare in culo... qualche cosa” disse lei.

“Tu vai in culo anche senza far niente”, aggiunse lui.

Quindi assaporarono il piatto di fusilli con una certa soddisfazione.

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